Fred Hoyle - L’insidia di Andromeda
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La Dawnay terminò il colloquio già decisa; avrebbe accettato il lavoro, se le proposte fossero state ragionevoli. Quindici minuti più tardi, un taxi la depositava davanti all’ambasciata dell’Azaran.
Fu introdotta nell’ufficio di Salim senza indugi. Con sua grande sorpresa questi sembrava conoscere tutto della sua carriera, e discusse il suo lavoro con notevole intelligenza. Quasi come un fatto secondario, menzionò infine lo stipendio. Era assolutamente fantastico, e Salim non mancò di notare che la Dawnay tratteneva il fiato.
«Paragonato ai salari inglesi, è molto alto,» sorrise, «ma questo è l’Azaran, ed una delle cose che abbiamo in abbondanza, al momento, è il denaro. Gli europei — professori, tecnici e così via — che lavorano per noi, devono essere compensati in qualche modo per il fatto che lasciano il loro paese e che l’impiego, di necessità, non è per la vita. Nel suo caso avremmo pensato ad un contratto per cinque anni, rinnovabile per mutuo accordo.
«Ma, soprattutto, è il lavoro che la interesserà molto. La nostra è un’antica nazione che è entrata in ritardo nel ventesimo secolo, signorina Dawnay. L’ottanta per cento del cibo dobbiamo importarlo. Abbiamo bisogno di un programma vasto e scientificamente valido, che faccia del nostro un paese fertile, quanto ora è ricco.» Esitò un attimo. «Per ragioni che le saranno chiare fra non molto, questo fatto diverrà ancora più essenziale per noi, nel futuro, addirittura per la nostra sopravvivenza.»
La Dawnay udì appena le ultime parole; la vecchia eccitazione che la prendeva sempre di fronte ad un problema della natura, che sfidasse i limiti della mente umana, si era impossessata di lei.
«Colonnello Salim,» disse quietamente, «sarò orgogliosa di aiutare come posso. Sono libera di partire quando vorrà.» Sorrise un poco tristemente. «Come saprà da quello che sembra essere stata una generale ricognizione sul mio passato, io non ho legami privati, né parenti che mi trattengano qui. E, per ragioni nelle quali non mi posso addentrare, il mio ultimo lavoro è ormai finito.»
Salim la gratificò di un largo, caldo sorriso. «Telefonerò al mio presidente immediatamente,» disse, «so che le sarà profondamente riconoscente. Nel frattempo, vi sono le solite formalità internazionali alle quali provvedere — iniezioni, vaccini, passaporti e così via. Che ne direbbe di dopodomani, alle dieci circa, per completare gli accordi? Discuteremo allora la data precisa della sua partenza.»
La Dawnay accettò. Una volta presa la decisione, era ansiosa di andarsene. Telefonò a Thorness, ed incaricò la cameriera della sua stanza di mettere nelle valigie le poche cose che aveva e di spedirle con il treno. Melanconicamente, si ripeté che, a parte un gran mucchio di libri nella sua vecchia camera all’università di Edimburgo, non possedeva niente altro al mondo. Né. aveva un vero amico al quale dire addio.
La mattina dopo, andò in un grande magazzino di Knightsbridge, per comprare tutta l’attrezzatura necessaria ad un paese tropicale, e portò quasi la commessa alla disperazione, con il suo modo di accettare sempre la prima cosa che le veniva mostrata. Tutto fu fatto in un paio di ore. Si accordò con il magazzino perché le consegnasse gli acquisti, messi in una valigia all’aeroporto di Londra, il giorno che avrebbe stabilito.
Nel pomeriggio trovò un medico, e si fece fare tutte le iniezioni. I vaccini le dettero un poco di febbre, così rimase a riposare in albergo tutta la sera. Alle dieci di mattina, il giorno dopo, si presentò puntualmente all’ambasciata dell’Azaran.
Salim la salutò in modo cortese, ma era evidentemente a disagio, con un orecchio teso ad ascoltare una piccola e potente radio ad onde corte, dalla quale, in mezzo a notevoli disturbi, veniva un torrente di parole arabe, pronunziate sottovoce.
«Splendido, professoressa Dawnay,» egli disse finalmente, dopo aver dato un’occhiata affrettata al passaporto ed ai certificati di vaccinazione. «Ecco il suo visto ed i biglietti dell’aeroplano. Le ho fatto provvisoriamente prenotare un posto sul volo delle 9 e 45 di dopodomani. Pensa che possa andare bene?»
Prima che ella potesse rispondere, Salim balzò in piedi e corse verso la radio, alzandone il volume ed ascoltando attentamente per un paio di minuti. Quindi la spense.
«Era l’annuncio della nostra libertà!» disse con aria sognante.
«Ma voi siete già liberi!» La Dawnay lo guardò sorpresa.
Il colonnello si volse verso di lei. «La libertà politica è una questione di documenti ed ideali. La libertà reale è una questione di affari. Abbiamo finalmente rotto i nostri legami con il suo paese; abbiamo rinunciato a tutti gli accordi sul petrolio e sul commercio.» Indicò la radio. «È quello che ha sentito.» Le sorrise di nuovo. «Ora può capire perché abbiamo tanto bisogno di gente capace, che ci aiuti. Io stesso rientrerò nell’Azaran appena tutte le questioni diplomatiche saranno state chiarite. Desideriamo rimanere in rapporti amichevoli con la Gran Bretagna; e con tutte le altre nazioni. Ma vogliamo essere indipendenti in tutti i sensi della parola. E lei ci aiuterà!»
Madeleine Dawnay provò un lieve senso di fastidio, a questo improvviso cambiamento della situazione. Durante tutta la sua carriera, aveva accuratamente evitato di mischiarsi con la politica, nella convinzione che gli scienziati debbano essere al di sopra dei partiti e delle fazioni, essendo il loro dovere quello di aiutare l’umanità. «Spero di poter fare qualcosa,» mormorò educatamente.
Salim non parve averla sentita. Si accigliò, riguardando i documenti che gli aveva porto. «Non ha fatto l’iniezione per la febbre gialla?» domandò. «Sicuramente le abbiamo detto che è necessaria.»
«Non mi sembra,» rispose la Dawnay, «ma posso farla oggi stesso.»
Salim si alzò e le fece un sorriso accattivante. «Possiamo fare di meglio; capita proprio che il medico dell’ambasciata sia qui stamane.»
Premette il pulsante del citofono. «Domandi alla signorina Gamboul se può fare un’altra iniezione per la febbre gialla,» disse ad un segretario. Ci fu una pausa, quindi una voce maschile rispose che la signorina Gamboul poteva.
Di nuovo, la sensazione di fastidio si insinuò nella mente di Madeleine. Per un attimo, non riuscì a capirne la causa. Poi comprese. Una dottoressa non viene di solito chiamata «signorina.» Il sospetto le parve sciocco e lo allontanò dalla sua mente, attribuendo l’errore alla conoscenza imperfetta che Salim doveva avere dell’inglese.
Mentre aspettavano l’arrivo della dottoressa, il colonnello girò intorno al tavolo e si chinò, vicino alla Dawnay. «Mi dica qualcosa di uno dei suoi colleghi, il professor John Fleming. Mi sembra che lavorasse con lei, in quella stazione sperimentale scozzese. È ancora lì?»
«Non potrei dirlo,» rispose brevemente lei.
«Mi è stato riferito che era morto.»
«Temo di non poterle dire nulla di lui.» Il tono di lei fu tale da convincere subito Salim che Fleming era vivo, ma tuttavia egli non reagì. Invece alzò gli occhi a fissare la porta che si apriva.
«Oh, signorina Gamboul!»
Una donna in camice bianco era entrata senza bussare. Era bruna e piuttosto attraente e — non si sarebbe potuto stabilire meglio di così — sulla trentina. Aveva una pelle senza difetti e due lunghe sopracciglia sugli occhi scuri e belli; ma non aveva affatto l’aspetto di un medico. Persino nel suo camice bianco dava un’impressione di sensualità e di alta moda; la Dawnay fu sicura che fosse molto più abituata ad essere chiamata mademoiselle, che non signorina.
E, tuttavia, c’era una sorprendente aria di serietà e di intelligenza professionale, sul suo volto. Alla Dawnay non piacque la durezza del suo sguardo, né la sottile linea di matita rossa sulle sue labbra; ma, sopra ogni altra cosa, la Dawnay non amava la gente enigmatica. Notò che le unghie della mano che reggeva un piatto coperto con un panno bianco, dal quale sporgeva una siringa ipodermica, erano dipinte di un rosso brillante ed appuntite. Madeleine abbassò automaticamente gli occhi sulle proprie pallide unghie tagliate quadrate. Né scienziati né medici, pensò, avrebbero dovuto permettersi lussi così poco igienici come la lacca e le unghie lunghe.
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