Fred Hoyle - L’insidia di Andromeda
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«Detesto doverle chiedere un altro favore,» disse Fleming, «ma potrebbe prestarmi la sua barca?»
«Perché?» domandò sospettosamente Preen, «dove vuol andare?»
«A terra.»
«Non reggerebbe il mare fino lì.»
«Va bene, fino all’isola di Skye, allora,» disse Fleming, impaziente, «cercherò di prendere un appuntamento là.»
«Vuol trovare un medico, suppongo. Lo porterà qui? Le mani di quella povera ragazza…» inghiottì, assalito di nuovo dalla nausea.
«Non porterò un dottore, ma qualcosa di meglio. Non porterò nessuno qui, glielo prometto.»
Preen accettò molto a malincuore di dare l’imbarcazione. Una volta presa la decisione, però, parve in ansia perché Fleming se ne andasse subito. Più presto sarebbe partito, più presto sarebbe tornato. E allora, forse, Preen avrebbe cominciato ad intravedere la possibilità di liberarsi dei suoi visitatori e di essere lasciato in pace.
Accompagnò Fleming giù, alla piccola spiaggia, dove la sua lancia stava al riparo di una roccia sporgente. Una piccola latta di benzina era poggiata lì accanto. Mentre preparavano la barca per partire, Preen tentò ancora una volta di scusarsi del proprio atteggiamento. Disse anche che avrebbe fatto del suo meglio per assistere la ragazza.
«Benissimo,» rispose Fleming con maggior ottimismo di quanto non provasse veramente, «non dovrei restare via più di ventiquattro ore, al massimo. Ora, dovrebbe indicarmi brevemente la rotta per Skye.»
Preen si diffuse in una tipica spiegazione da uomo di terra. «La corrente, e qualsiasi vento ci sia, sono sempre verso nordest. Se andrà sempre in quella direzione, troverà le boe luminose che sono all’entrata di Loch Harport, entro mezz’ora. Io mi attracco sempre all’estremo lato del porto, dove c’è una specie di casa, con un emporio.»
«Quanto dista da Portree?»
«Attraverso le colline, non più di quindici chilometri; ma molto di più se andrà lungo la strada. Però, con la luce del giorno, potrebbe trovare chi le dà un passaggio.»
Fleming guardò il suo orologio. «Me ne vado,» disse, «la pila della mia torcia è ancora carica; dovrebbe durare fino all’alba.»
Fece come gli era stato detto. Gironzolò nei paraggi della piccola città finché vide la gente per le strade, e non poté essere abbastanza sicuro di arrivare all’aeroporto senza attirare l’attenzione. Fece anche uno spuntino, quando si fu accertato che il prossimo volo per Oban non sarebbe partito che dopo mezz’ora.
Poi entrò in una cabina telefonica. Thorness aveva un numero non registrato nell’elenco degli abbonati, e le telefonate venivano passate, localmente, attraverso un centralino. Gli sembrò di notare una lieve esitazione nella voce dei centralinista, prima che ripetesse la richiesta, domandandogli da quale numero stesse chiamando. Era un rischio che doveva correre. A meno che la polizia locale non fosse stata molto veloce a muoversi e Quadring ancora più veloce nell’avvertirla, si sarebbe trovato in aeroplano prima che succedesse qualsiasi cosa.
Egli sapeva, naturalmente, che ogni chiamata a Thorness veniva registrata, alla stazione, per regolamento. In un momento di crisi come quello, la cosa era doppiamente certa. Si sforzò di sperare che il ticchettio del microfono fosse il solito ticchettio della normale registrazione, e non qualche nuovo super-controllore, chiuso in una cabina a spiare tutti.
Con sua grande sorpresa, la chiamata fu inoltrata in meno di un minuto. Fleming riconobbe il telefonista addetto alla linea privata della stazione.
«La professoressa Dawnay,» mormorò più piano che poté, «la professoressa Dawnay, che sta all’infermeria.»
«Potrebbe essere nella sua stanza, ora vedo.»
La voce del telefonista aveva l’usuale tono impersonale ed efficiente. Fleming rimase attentamente in ascolto, per cogliere l’eventuale clic dell’inserimento di un’altra linea interna, ma non udì nulla.
«Sono Dawnay.»
Fu sorpreso di notare quanto suonasse maschile la voce di lei quando pronunciava il proprio nome, ma la riconobbe immediatamente.
«Come stai, Madeleine?» domandò.
La sentì trattenere il respiro ed esclamare a metà il suo nome. Fu appena un suono soffocato, ella lo represse subito. Fleming sorrise.
«Ho telefonato soltanto per dire che spero tu sia in forma, come io non lo sono più, adesso,» disse con tono leggero. Più lentamente e distintamente continuò: «Sono preoccupato per una questione di salute. Che si deve fare per delle bruciature? Dimmelo tu che sei così esperta di queste cose. Non per me, s’intende.»
Per un secondo o due, credette che ella avesse riattaccato; ma finalmente disse sottovoce: «Dove?»
«Ad Oban. Solo con la B.E.A. Non avrò molto tempo prima di dover prendere l’aeroplano di ritorno.»
«Sei un pazzo,» gli rispose calma, «ma farò più presto che posso. Nell’edificio dell’aeroporto.»
Il suo volo durò esattamente venti minuti. Dovette aspettare circa un’ora, prima che la Dawnay arrivasse. La vide scendere da un taxi, stando alla finestra dei gabinetti per signori. Notò, dietro di lei, un’altra macchina, ed aspettò per vedere chi ne scendesse. C’erano tre passeggeri: una coppia di mezza età ed un ragazzo con due valige. Tutto a posto, non l’avevano seguita.
Entrò con aria oziosa nella sala d’aspetto, e si mise ad osservare un affisso con l’orario dei viaggi.
«Sei stato un pazzo a venire,» la udì sussurrare dietro di sé, «ma ho portato la roba.»
Egli si volse a metà ed accennò ad un angolo deserto, con una macchina per la distribuzione delle bevande calde. Vi si diressero.
«Tè, caffè, o cioccolato?» domandò lui, porgendole un bicchiere di cartone, mentre si frugava in tasca per cercarvi degli spiccioli.
«Hanno tutti lo stesso sapore, in queste macchinette,» sorrise lei. Prese il bicchiere e, allo stesso tempo, gli passò una piccola scatola bianca. Fleming la fece scivolare in tasca, prima di infilare la moneta nella fessura del distributore.
«Grazie,» disse, «spero che questo sia l’enzima che fa guarire, e non quello che a momenti ti ammazzava.»
La Dawnay sorseggiò la sua bevanda con espressione disgustata. «E lo chiamano caffè… sì, questo è quello buono, lo garantisco. È la formula originale data dal calcolatore la prima volta che lei si bruciò. Ricorderai come funzionò a dovere. La setticemia sopravviene in qualche ora; le fibre nervose e linfatiche si ricreano in tre giorni. Lei come sta?»
Fleming prese del caffè per sé. «Non troppo male, se non fosse per le mani. Ora devo tornare; non vorrei trovare sul posto una ragazza morta.»
Ella lo guardò divertita. «E così, ora pensi a lei come ad una ragazza, non è vero? Però sei stato un pazzo a venire qui,» ripete, «io non so esattamente quello che sta succedendo alla stazione, ma è certo che le ricerche proseguono.»
Fleming guardò l’orologio. «Devo proprio andare,» si scusò. «E grazie per la roba. Parlando di pazzia, anche tu sei abbastanza folle, a fare questo per me; sono un nemico, non lo sapevi?»
«No, non lo sapevo,» rispose, «e, quanto a farlo per te… no, lo faccio per lei. È anche mia, non lo dimenticare, l’ho fatta io!»
Camminarono insieme fino al cancello delle partenze, quando l’altoparlante annunciò il volo per Skye e Lewis.
«Non credo che ti vedrò di nuovo,» disse la professoressa, «mi è stato offerto un altro lavoro. Non c’è più ragione di rimanere a Thorness, ora che il progetto Andromeda è andato. Sarà una bella esperienza; facce nuove, lavoro nuovo.»
«Dove?» chiese lui.
«Nel Medio Oriente, in uno di quei posti tutti sabbia e petrolio, e nient’altro.»
Fleming non era molto interessato. «Buona fortuna,» disse in tono vago. Poi, impulsivamente, si chinò e la baciò sulla guancia. Madeleine ne parve felice come una fanciulla.
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