L’idea che l’intelligenza potesse sorgere più facilmente della vita stessa era sconcertante… ma in realtà non avevamo una buona definizione del termine: ogni volta che un computer pareva riuscire a riprodurre l’intelligenza, dicevamo semplicemente che con quel termine intendevamo una cosa diversa. — Dio come scienziato — dissi, assaporando l’idea. — Be’, immagino che ogni tecnologia abbastanza progredita sia indistinguibile dalla magia.
— Analisi stringata — disse Hollus. — Dovresti metterla per iscritto.
— Non credo sia originale. Ma ciò che proponi è solo questo: una proposta. Non dimostri l’esistenza del tuo Dio.
Hollus ballonzolò. — E quale tipo di prova ti convincerebbe?
Riflettei alcuni secondi, poi scrollai le spalle. — Una pistola fumante — risposi.
Hollus divaricò gli occhi alla massima distanza possibile. — Che cosa?
— Il mio genere di narrativa preferito è l’indagine sugli omicidi e…
— Sono stupito che all’uomo piaccia leggere di uccisioni — disse Hollus.
— No, no, mi sono spiegato male. Non ci piace leggere di omicidi, ci piace leggere di giustizia… di criminali, non importa quanto intelligenti, e della dimostrazione della loro colpevolezza. E in un vero caso di omicidio, la migliore prova è trovare il colpevole con in mano la pistola fumante, l’arma del delitto.
— Ah — disse Hollus.
— Una pistola fumante è prova incontrovertibile. Ed è ciò che voglio: una prova incontrovertibile.
— Non esiste prova incontrovertibile per il Big Bang. E neppure per l’evoluzione. Eppure accetti l’uno e l’altra. Perché pretendere un parametro più elevato, per la domanda se esiste un creatore?
A questa obiezione non avevo nessuna buona risposta. — So solo che per convincermi occorrono prove schiaccianti — dissi.
— Credo che tu le abbia già avute — replicò Hollus.
Mi grattai la testa e sentii la pelle liscia dove un tempo avevo i capelli.
Hollus aveva ragione: accettiamo davvero la teoria dell’evoluzione senza la minima prova. Certo, pare evidente che i cani discendono dai lupi. I nostri antenati li hanno addomesticati, eliminando con gli incroci la ferocia e aggiungendo la socievolezza, e a un certo punto hanno cambiato il Canis lupus pallipes dell’era glaciale nel Canis familiaris, il moderno cane nelle sue 300 razze diverse.
Cani e lupi non si incrociano più o almeno l’incrocio genera prole sterile: lupi e cani sono due specie differenti. Se è andata proprio in questo modo… se gli esseri emani hanno mutato Akela in Vagabondo, creando una nuova specie… allora uno dei principi basilari dell’evoluzione è stato dimostrato: si possono creare nuove specie dalle vecchie.
Però non possiamo dimostrare l’evoluzione del cane! E in tutte le migliaia d’anni di allevamento di cani, generando tante razze diverse, non siamo riusciti a creare una nuova specie di cane: un chihuahua può sempre accoppiarsi con una danese, un pit bull può montarsi una barboncina… e questi accoppiamenti generano prole fertile. Per quanto di razza diversa, appartengono sempre alla specie Canis familiaris. Inoltre, non abbiamo mai creato una nuova specie di gatto o di topo o di elefante, di granturco o di noce di cocco o di cactus. Nessuno, nemmeno il più fervido creazionista, mette in dubbio che la selezione naturale possa produrre cambiamenti all’interno di una certa specie; ma non può trasformare una specie in un’altra: infatti, non è mai stato osservato.
Al rom, nella sala di paleontologia dei vertebrati, abbiamo un lungo diorama con scheletri di cavalli, dall’ Hyracotherium dell’eocene al Mesohippus dell’oligocene, al Merychippus e al Pliohippus del pliocene, all’ Equus shoshonensis del pleistocene, fino all’ Equus caballus di oggi, rappresentato da un moderno quarter horse e da un pony Shetland.
Oh, certo, pare proprio che l’evoluzione ci sia: il numero di dita si riduce dalle quattro anteriori e tre posteriori dell’ Hyracotherium all’unico dito attuale a forma di zoccolo; i denti diventano sempre più lunghi, chiaro adattamento per masticare erba dura; gli animali (tranne i pony) diventano sempre più grandi. Passo tutte le volte davanti a quel diorama, fa parte dello sfondo della mia vita. Raramente ci penso, però, anche se spesso l’ho illustrato, quando accompagno nella sala visitatori importanti.
Una specie origina la specie successiva, in un’infinita parata di mutazioni, di adattamenti a condizioni sempre diverse.
Lo accetto senza difficoltà.
Lo accetto perché la teoria di Darwin ha un senso.
Allora perché non accetto anche la teoria di Hollus?
“Affermazioni straordinarie richiedono prove straordinarie.” Era il mantra di Carl Sagan, nelle discussioni con i fanatici degli ufo.
Be’, guarda un po’, Carl! Gli alieni sono qui: a Toronto, a Los Angeles, nel Burundi, nel Pakistan, in Cina. A questa prova non si può sfuggire. Sono qui.
E il Dio di Hollus? E la prova per accettare un progettista intelligente? I Forhilnor e i Wreed avevano prove più concrete, pare, di quelle che avevo io per l’evoluzione, l’intelaiatura intellettuale sulla quale avevo costruito la mia vita, la mia carriera.
Però… però…
Affermazioni straordinarie. Dovevano di sicuro corrispondere a parametri più elevati. La prova dovrebbe essere monumentale, inconfutabile.
Certamente. Certamente.
L’ottobre scorso, quando ero andato all’ospedale St. Michael per incontrare l’oncologa, Katarina Kohl, Susan mi aveva accompagnato.
Fu un’esperienza terrificante, per tutt’e due.
Per prima cosa la dottoressa Kohl eseguì una broncoscopia: mi infilò in bocca un tubicino con microtelecamera per esaminare le vie respiratorie di entrambi i polmoni, nella speranza di arrivare al tumore e prelevarne un campione. Visto che non era possibile, eseguì allora una biopsia: mi infilò nel petto un ago sottile, direttamente nel polmone, guidandosi con i raggi X. Anche se non sussistevano dubbi, in base alle cellule espettorate con la tosse, quel campione avrebbe comunque confermato la diagnosi di tumore.
Tuttavia, se il tumore era circoscritto e se ne conosceva la posizione, era possibile rimuoverlo con un intervento chirurgico. Prima però di aprirmi il petto per l’intervento, era necessario un altro esame: una mediastinoscopia. La dottoressa Kohl mi praticò una breve incisione poco sopra lo sterno, penetrando fino alla trachea. Poi infilò nell’incisione un tubicino con telecamera e lo spinse lungo la parte esterna della trachea per ispezionare i noduli linfatici nei pressi di ciascun polmone. Prelevò altro materiale per gli esami.
E alla fine ci disse che cosa aveva trovato.
Restammo distrutti dalla notizia. Non riuscii a riprendere fiato e quando la dottoressa ci mostrò i risultati degli esami, malgrado fossi seduto mi sentii mancare. Il tumore aveva raggiunto i nodi linfatici; l’intervento chirurgico era inutile.
La dottoressa Kohl ci diede qualche minuto per riprenderci. Aveva visto la stessa scena centinaia, migliaia di volte: cadaveri viventi che la fissavano, inorriditi, spaventati, desiderosi di sentirle dire che era solo uno scherzo, che era un errore, che le apparecchiature avevano funzionato male, che c’era ancora speranza.
Ma la dottoressa Kohl non disse niente del genere.
Una prenotazione era stata annullata; era possibile effettuare quello stesso giorno una tac.
Non domandai perché colui che aveva l’appuntamento non l’avesse mantenuto. Forse nel frattempo era morto o era morta. Il reparto tumori era pieno di spettri. Susan e io aspettammo in silenzio. Susan cercò di leggere una vecchia rivista; io continuai a fissare il vuoto, con i pensieri che correvano all’impazzata, con la mente che vacillava.
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