Sapevo cos’era una tac… tomografia assiale computerizzata. Ne avevo viste fare un mucchio. Di tanto in tanto, un ospedale di Toronto ci lascia analizzare un fossile interessante, se al momento l’apparecchiatura non è utilizzata. È un modo efficace di esaminare esemplari troppo fragili per essere rimossi dalla matrice che li racchiude; è anche un ottimo sistema per vedere le strutture interne. Abbiamo fatto magnifici lavori su crani di Lambeosaurus e su uova di Eucentrosaurus. Sapevo tutto, della procedura… ma non l’avevo mai sperimentata su di me. Avevo le mani sudate. Mi veniva da vomitare, anche se gli esami non mi avevano provocato nausea. Ero impaurito… non ero mai stato così impaurito in vita mia. L’unica volta in cui mi ero sentito così nervoso era stato mentre con Susan aspettavo di sapere se avremmo potuto adottare Ricky. Eravamo seduti accanto al telefono e ogni volta che l’apparecchio suonava, sentivamo un colpo al cuore. Ma in quel caso aspettavamo una buona notizia…
La tac è indolore e un po’ di radiazioni ormai non potevano farmi danno. Mi distesi sul materassino e il tecnico mi spinse nel tunnel d’analisi, generando immagini che mostravano l’estensione del tumore ai polmoni.
L’estensione reale…
Ero sempre stato uno studente, portato a imparare… come Susan, d’altronde. Ma quel giorno fatti e cifre vennero in una confusione sconcertante, disgiunti, complessi, troppe cose da assorbire, troppe cose da credere. La dottoressa Kohl era distaccata… aveva tenuto lezioni simili già un migliaio di volte: una professoressa di ruolo, stufa, stanca.
Per noi invece, per tutti quelli seduti nelle stesse poltroncine di plastica che Susan e io occupavamo, per tutti quelli che avevano lottato per capire, per rendersi conto… per noi era terrificante. Avevo un’emicrania da impazzire; una sete terribile, che l’acqua tiepida che lo specialista continuava a offrirmi non avrebbe mai diminuito; le mie mani… mani che avevano scalpellato con cura ossa d’embrione di dinosauro per staccarle dall’uovo, mani che avevano rimosso sovraccarichi di calcare su penne fossili, mani che erano state la mia fonte di vita, gli utensili del mio mestiere… tremavano come foglie nel vento.
Il cancro polmonare, disse l’oncologa in tono neutro, come se discutesse le caratteristiche dell’ultima auto sportiva o del videoregistratore, è una delle più micidiali forme di cancro, perché di solito non è scoperto per tempo; e quando è scoperto, spesso ha estese metastasi nei linfonodi del tronco e del collo, nella membrana pleurica che riveste polmoni e petto, nel fegato, nelle ghiandole surrenali, nelle ossa.
Volevo che si mantenesse nell’astratto, nel teorico. Solo qualche commento generale, semplice contesto.
Ma no. No. Lei continuò; segnò il suo punto. Era tutto pertinente per me, per il mio futuro.
Sì, il cancro polmonare spesso si diffonde estensivamente.
Il mio aveva fatto proprio così.
Le rivolsi la domanda che morivo dalla voglia di rivolgerle, la domanda la cui risposta mi atterriva, la domanda più importante che da quel momento definiva ogni cosa, nel mio universo. Quanto ancora? Quanto ancora?
La dottoressa Kohl, finalmente un essere umano e non un robot, evitò per un momento d’incrociare il mio sguardo. U tempo medio di sopravvivenza dopo la diagnosi, disse, era di nove mesi senza cure. La chemioterapia poteva farmi guadagnare un po’ di tempo, ma il mio cancro polmonare era un adenocarcinoma… una parola nuova, una manciata di sillabe che avrei finito per conoscere bene come il mio nome, sillabe, davvero, che definivano ciò che ero e ciò che sarei divenuto meglio di quanto non avessero mai fatto “Thomas David Jericho”. Anche con le cure, solo uno su otto individui affetti di adenocarcinoma era ancora vivo cinque anni dopo la diagnosi; la maggior parte se ne andava… è questa, la frase che usò, “se ne andava”, come se uno si fosse recato al negozio d’angolo a comprare una pagnotta… la maggior parte se ne andava ancora più presto.
Fu come un’esplosione che facesse crollare tutto ciò che Susan e io avevamo conosciuto.
Quel giorno d’autunno l’orologio si era messo in moto.
Il conteggio alla rovescia era iniziato.
Avevo solo circa un anno di vita.
Ogni sera, dopo la chiusura al pubblico, Hollus e io scendevamo nella Rotonda Inferiore. Come ricompensa per ciò che gli avrei lasciato guardare, Hollus mi mostrava ricostruzioni di vari periodi del passato geologico di Beta Hydri III e io registravo tutto su videocassetta.
Forse perché la mia vita si approssimava alla fine, dopo un poco ebbi una gran voglia di vedere altro. Hollus aveva parlato di sei pianeti all’apparenza abbandonati dai loro abitanti. Volevo vederli, vedere i più recenti manufatti di quei mondi alieni… le ultime cose che gli abitanti avevano costruito prima di scomparire.
Ciò che Hollus mi mostrò era sorprendente.
Per primo, Epsilon Indi I. Nel continente meridionale c’è una gigantesca piazza racchiusa da mura. Le mura sono di enormi blocchi di granito rozzamente squadrati, ciascuno di più di otto metri di lato. L’area racchiusa, quasi 500 metri di diametro, è piena di detriti: enormi blocchi irregolari di cemento frantumato. Anche se si potessero scalare le mura, il vasto campo di detriti sarebbe una imponente distesa desolata. Nessun animale, nessun veicolo potrebbe attraversarla se non con grande difficoltà; e niente potrebbe mai crescervi.
Poi Tau Ceti II. Al centro di un arido panorama, gli abitanti da tempo scomparsi hanno costruito un disco di pietra nera fusa, con diametro superiore a 2000 metri, spesso più di cinque, a giudicare dal bordo. La superficie nera assorbe il calore del sole, diventa incredibilmente calda: ci si riempirebbe di vesciche, a percorrerla a piedi, e le suole delle scarpe si scioglierebbero.
La superficie di Mu Cassiopeae AI non rivela segno di abitanti scomparsi: 2,4 milioni di anni d’erosione hanno sepolto ogni cosa. Hollus però mi mostrò un modello, ricavato mediante computer, di ciò che i sensori dell’astronave Merelcas avevano rinvenuto sotto gli strati sedimentari: una vasta pianura coperta di torreggianti guglie ritorte, di cuspidi e di altre forme frastagliate; e sotto di essa, una cripta o camera, per sempre celata alla vista. Un tempo quel pianeta aveva un grande satellite, molto più grosso di quanto non sia la Luna rispetto alla Terra, ora ridotto però a un magnifico sistema di anelli. Secondo Hollus, anche gli anelli contavano 2,4 milioni di anni: in altre parole, erano comparsi nello stesso periodo in cui gli abitanti erano scomparsi.
Gli dissi di mostrarmi il resto del pianeta. C’erano arcipelaghi e isole disposte come perle in un filo; la costiera orientale del continente più vasto era assai simile a quella occidentale del secondo per grandezza: chiaro segno di movimenti tettonici.
— Hanno fatto esplodere la loro luna — dissi, sorpreso d’avere avuto quell’intuizione. — Volevano porre fine alle forze di marea che facevano ribollire il nucleo del pianeta; volevano eliminare i movimenti tettonici.
— Perché? — disse Hollus, incuriosito.
— Per impedire che la loro cripta fosse inghiottita — risposi. La deriva continentale provoca il riciclaggio delle rocce della crosta, quelle vecchie sono spinte giù nel mantello e dal magma spinto fuori nelle fosse sottomarine si formano quelle nuove.
— Noi abbiamo ipotizzato che la cripta fosse un deposito di scorie nucleari — disse Hollus. — Lo sprofondamento sarebbe stato il modo migliore per liberarsene.
Annuii. Gli scenari di quel pianeta e di Tau Ceti II e di Epsilon Indi I ricordavano davvero proposte per discariche nucleari sulla Terra: paesaggi artificiali tali da suscitare presentimenti così brutti che nessuno vi avrebbe mai fatto scavi.
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