— Sì.
—Bene. Ora, espandiamo la scacchiera. Invece di una matrice 8x8, ne usiamo una 400x300; su questo monitor, ogni casella è così rappresentata da una cella di due per due pixel. Indicheremo con celle bianche le caselle occupate e con celle nere le caselle libere.
Premetti un tasto: la scacchiera parve allontanarsi e nello stesso tempo estendersi fino ai quattro angoli dello schermo. La griglia della scacchiera scomparve, a quella risoluzione, ma il disegno casuale di celle illuminate e non illuminate era evidente.
— Ora — ripresi — applichiamo le nostre tre regole. — Premetti la barra spaziatrice e il disegno cambiò. — Di nuovo — dissi, ripetendo l’operazione, e il disegno cambiò. — Ancora una volta. — Un’altra nuova configurazione di puntini sullo schermo.
Hollus guardò lo schermo e poi me. — Ebbene?
— Ecco — dissi. Premetti un altro tasto e il procedimento iniziò a ripetersi in automatico: applicare le tre regole a ogni pezzo sulla scacchiera, mostrare la nuova configurazione, applicare di nuovo le regole, mostrare la configurazione modificata e così via.
Occorsero solo alcuni secondi perché comparisse il primo glider. — Vedi quel gruppo di cinque celle? — dissi. — Lo chiamiamo glider e… ah, ce n’è un altro. — Lo indicai, toccando lo schermo. — E ancora un altro. Guarda come si muovono.
Infatti parevano muoversi, rimanendo in gruppo, mentre passavano da una posizione all’altra.
— Se fai girare questa simulazione abbastanza a lungo — dissi — vedrai ogni sorta di disegni realistici; infatti questo gioco si chiama Game of Life, Fu inventato nel 1970 da un matematico, John Conway. Usavo questo gioco quando insegnavo teoria dell’evoluzione all’università di Toronto. Conway era stupito di ciò che generavano quelle tre semplici regole. Dopo un numero sufficiente di ripetizioni, comparirà una cosa detta “ glider gun”, una struttura che a intervalli regolari spara nuovi glider. E in realtà i glider gun possono essere creati da collisioni di tredici o più glider, perciò, in un certo senso, i glider si riproducono. Si ottengono anche degli eater che possono spezzare oggetti di passaggio; nel procedimento, l’ eater rimane danneggiato, ma dopo alcuni giri si ripara. Il gioco dà movimento, riproduzione, nutrizione, crescita, guarigione delle ferite e altro, tutto grazie all’applicazione di quelle tre semplici regole a una selezione inizialmente casuale di pezzi.
— Non capisco dove vuoi arrivare — disse Hollus.
— A questo: la vita, in tutta la sua apparente complessità, può essere generata da regole semplicissime.
— E queste regole che continui a ripetere cosa rappresentano esattamente?
— Be’, le leggi della fisica, per esempio…
— Nessuno mette in dubbio che un ordine apparente possa provenire dall’applicazione di regole semplici. Ma chi ha scritto le regole? Per l’universo che mi mostri, hai fatto un nome…
— John Conway.
— Sì. Bene, John Conway è il dio di quell’universo e tutta la sua simulazione dimostra solo che ogni universo necessita di un dio. Conway era il programmatore. Anche Dio era un programmatore; le leggi e le costanti fisiche da lui stabilite sono il codice sorgente del nostro universo. La presunta differenza fra il tuo signor Conway e il nostro Dio è che, come hai notato, Conway non sapeva che cosa il suo codice sorgente avrebbe prodotto finché non l’ha compilato ed eseguito e per questo si stupì dei risultati. Ammettiamo pure che le cose non siano andate esattamente come progettato… le estinzioni di massa sembrano indicarlo. Ciononostante, pare chiaro che Dio ha progettato deliberatamente l’universo.
— Ci credi davvero? — domandai.
— Sì — rispose Hollus, guardando altri glider danzare sullo schermo del mio computer. — Ci credo davvero.
Da ragazzo, sono stato iscritto per tre anni al club Sabato Mattina del Royal Ontario Museum. Era un’esperienza incredibile, per un ragazzino come me, affascinato da dinosauri e serpenti e pipistrelli e gladiatori e mummie. Ogni sabato, durante l’anno scolastico, andavamo al museo ed entravamo prima dell’apertura al pubblico. Ci radunavamo nella sala proiezioni del rom… era chiamata così, prima che chissà quale consulente superpagato decidesse di chiamarla Teatro rom. A quel tempo la sala era davvero brutta, tappezzata in nero; da allora è stata rammodernata.
La mattinata iniziava con la signora Berlin che ci mostrava un filmato in 16 mm, di solito un corto del National Film Board canadese. E poi ci aspettava mezza giornata di attività nel museo, non solo nelle sale d’esposizione, ma anche dietro le quinte. Ero entusiasta di quei sabato mattina e avevo deciso che un giorno avrei lavorato lì nel rom.
Un giorno, ricordo, assistevamo a una dimostrazione dell’artista responsabile di parecchie ricostruzioni di dinosauri del museo. Lui chiese al gruppo a quale specie di dinosauro appartenesse il dente acuminato e seghettato che ci mostrava.
— Un Carnosauro — risposi subito.
Lui rimase colpito. — Giusto — disse.
Più tardi, un altro ragazzo mi sgridò: — Si dice carnivoro, non carnosauro.
Carnosauro era, naturalmente, il termine corretto: il nome tecnico per un gruppo di dinosauri che comprende tirannosauri e simili. Gran parte dei ragazzi non lo sa; diavolo, gran parte degli adulti non lo sa!
Io però lo sapevo. Avevo letto quel nome su una targa nella Galleria Dinosauri del rom. La sala originale, cioè.
Anziché gli attuali diorami, la sala conteneva ricostruzioni, che si potevano guardare da tutti i lati; corde di velluto impedivano al pubblico di avvicinarsi troppo. E ogni esemplare aveva una lunga spiegazione battuta a macchina e incorniciata… occorrevano quattro-cinque minuti per leggerla tutta.
Il pezzo centrale della vecchia galleria era un Cotythosaurus, un enorme tracodontide in posizione eretta. C’era qualcosa di meravigliosamente canadese, anche se a quel tempo non lo capivo, nel fatto che il dinosauro esposto al rom fosse un placido vegetariano anziché un famelico T. rex o un corazzato Triceratops, le più comuni ricostruzioni nella maggior parte dei musei degli Stati Uniti; infatti fu solo nel 1999 che il rom espose un calco di T. rex nella Galleria Scoperte, per i ragazzi. Quell’antica ricostruzione di Cotythosaurus però era sbagliata. Sappiamo adesso che gli adrosauri quasi sicuramente non potevano reggersi in piedi a quel modo; probabilmente trascorrevano gran parte della vita come quadrupedi.
Ogni volta che andavo al museo, da ragazzo, mi facevo un punto d’onore di guardare quello scheletro e gli altri e di leggere le targhe e di battagliare col vocabolario e di imparare quanto più potevo.
Abbiamo ancora quello scheletro, al rom, infilato al fianco del diorama dell’Alberta nel cretaceo, ma non c’è più nessun testo di spiegazione. Solo una piccola targa di plexiglas che in malafede sorvola sulla postura sbagliata e dice poco d’altro:
CORYTHOSAURUS EXCAVATUS GILMORE
Adrosauro tracodontide crestato (becco d’anatra), montato in postura ritta e attenta. Cretaceo superiore, formazione Oldman (circa 75 milioni di anni), Little Sandhill Creek, presso Steveville, Alberta.
Ovviamente, la “nuova” Galleria Dinosauri era ormai vecchia di venticinque anni. Era stata aperta prima che Christine Dorati andasse al potere, ma la Dorati la considerava un modello di come dovevano essere le nostre esposizioni: non annoiare il pubblico, non sommergerlo di fatti. Lasciarlo semplicemente a bocca aperta.
Christine Dorati aveva due figlie, ormai cresciute. Ma spesso mi domandavo se, quando loro erano piccole, lei avesse fatto una figuraccia in un museo. Forse aveva detto: “Oh, Mary, questo è un Tyrannosaurus Rex. È vissuto dieci milioni di anni fa”. E sua figlia è peggio ancora, un ragazzino sveglio com’ero stato io) l’aveva corretta, sfruttando i dati scritti sulla targa: “Quello non è un tirannosauro e non è vissuto dieci milioni di anni fa. È un Allosaurus ed è vissuto 150 milioni di anni fa”. Quale che fosse la ragione, però, Christine Dorati odiava le targhette informative.
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