Quando iniziai a lavorare al rom, l’intero fronte del secondo piano era dedicato alla paleontologia. L’ala nord, direttamente sopra i negozi di regali e la gastronomia, aveva sempre ospitato le esposizioni di paleontologia dei vertebrati, la Galleria Dinosauri, e l’ala sud aveva in origine ospitato la sala degli invertebrati; anzi, le parole museo di paleontologia sono ancora scolpite nella pietra lungo la parte superiore del muro.
Ma la sala degli invertebrati era stata chiusa molti anni prima e nel 1999 quella sezione era stata riaperta al pubblico col nome di “Galleria Scoperte”, proprio il genere d’intrattenimento a fine educativo che piace alla stucchevole Christine Dorati: esposizioni interattive per ragazzini, dove in pratica non si apprende quasi niente. I manifesti pubblicitari per la nuova sala recitano: “Pensate se il museo fosse diretto da un bambino di otto anni”. Come disse John Lennon, è facile, se ci provi.
Il nostro orgoglio nell’ambito dei vertebrati è lo scheletro di Parasaurolophus, dinosauro dei Tracodontidi o dal becco ad anatra, con la fantastica cresta lunga un metro. Ogni esemplare che si sia mai visto in qualsiasi parte del mondo è un calco della nostra ricostruzione. Anzi, perfino la Galleria Scoperte contiene un calco del nostro Parasaurolophus, disteso per terra, incastonato in falsa matrice. I ragazzi la sminuzzano tutto il giorno, usando martelli di legno e scalpelli, in genere seduti sul magnifico cranio.
Proprio davanti alla sala dei vertebrati c’è una balconata interna che guarda sulla Rotonda, la quale ha un raffinato disegno d’esplosione stellare incastonato nel pavimento di marmo. Sul lato opposto c’è una seconda balconata, di fronte alla Galleria Scoperte. Fra le due, sopra le porte a vetri dell’ingresso principale, ci sono tre finestre di vetro dipinto.
Mentre il museo era chiuso al pubblico, accompagnai Hollus nella sala dei vertebrati. Abbiamo la più bella collezione di adrosauri del mondo. Abbiamo anche un sensazionale Albertosaurus, un formidabile Chasmosaurus, due dinamiche ricostruzioni di Allosaurus, un magnifico Stegosaurus, oltre a un’esposizione di mammiferi del pleistocene, una parete coperta di calchi di resti di primati e di ominidi, una mostra di pozzi di pece La Brea, una raffigurazione standard dell’evoluzione del cavallo e un meraviglioso diorama subacqueo del tardo cretaceo, con plesiosauri, mosasauri e ammoniti.
Accompagnai Hollus anche all’odiata Galleria Scoperte, dove un calco di T. Rex incombe sull’inerme Parasaurolophus ricostruito sul pavimento. Hollus pareva incantato da tutti i fossili.
In aggiunta gli mostrai un mucchio di dipinti in dinosauri come sarebbero sembrati da vivi e mandai Abdus a procurarsi una copia di Jurassic Park in cassetta, in modo che Hollus potesse guardarsi il film.
Trascorremmo anche un mucchio di tempo in compagnia del vecchio e scontroso Jonesy, a esaminare le collezioni di paleoinvertebrati: Jonesy aveva trilobiti fin dentro le tasche.
I patti sono patti, decisi: all’inizio Hollus aveva detto che avrebbe diviso con noi i dati raccolti dalla sua razza. Era tempo di passare alla cassa. Gli domandai di parlarmi della storia evolutiva delle forme di vita del suo pianeta.
Pensavo che mi avrebbe mandato giù un libro, invece Hollus si superò. Disse che gli occorreva spazio, per procedere correttamente, perciò aspettammo che il museo chiudesse.
Nel mio ufficio, il simulacro dell’alieno tremolò e scomparve. Avevamo trovato una soluzione più semplice: spostavo da un posto all’altro il proiettore d’ologramma anziché accompagnare il simulacro per i corridoi del museo, anche perché quasi tutti… curatori, studenti, custodi, visitatori… trovavano una scusa per fermarci e chiacchierare con l’alieno.
Presi l’ascensore riservato al personale e scesi al pianterreno, davanti all’ampia scalinata di pietra che girava intorno al totem dei Nisga fino al seminterrato. Proprio sotto alla Rotonda c’era quella che con grande fantasia avevamo chiamato Rotonda Inferiore. Quell’ampia sala aperta, dipinta color salsa di pomodoro, serviva da atrio per la Sala proiezioni del rom, situata sotto i negozi d’articoli da regalo del pianterreno.
Avevo incaricato il personale di supporto di sistemare cinque telecamere su treppiede, per registrare ciò che Hollus mi avrebbe mostrato… sapevo che non gli piaceva che la gente guardasse da sopra le sue otto spalle, mentre lavorava, ma si era reso conto che, quando ci dava informazioni come pagamento, dovevamo farne una registrazione. Sistemai il proiettore d’ologramma nel centro della sala e battei un colpetto per evocare il genio forhilnor. Hollus ricomparve e per la prima volta ascoltai il suo linguaggio, mentre lui dava altre disposizioni al proiettore. Era simile a un canto, con Hollus che armonizzava con se stesso.
All’improvviso l’atrio lasciò posto a un incredibile panorama alieno. Come il simulacro di Hollus, pareva proprio reale: era come se fossi stato teletrasportato per venti e passa anni luce su Beta Hydri III.
— Questa è una simulazione, naturalmente — disse Hollus — ma la riteniamo accurata, anche se il colore degli animali è ipotizzato. Così appariva il mio pianeta settanta milioni di vostri anni fa, poco prima della più recente estinzione di massa.
Sentivo nelle orecchie il rombo del sangue. Battei il piede e tastai il solido e rassicurante pavimento della Rotonda Inferiore, l’unica prova che mi trovassi ancora a Toronto.
Il cielo era azzurro come quello della Terra, con nuvole simili a cumulonembi: evidentemente la fisica di un’atmosfera azoto-idrogeno con forte quantitativo di vapore acqueo era universale. Il panorama consisteva di alture ondulate e c’era un ampio stagno bordato di sabbia, situato all’incirca In un punto corrispondente alla base del totem Nisga. Il sole era dello stesso colore giallo chiaro del nostro e pareva più o meno della stessa grandezza. Mi ero documentato su Beta Hydri: la stella era 1,6 volte più grande della nostra e 2,7 volte più luminosa, quindi il pianeta dei Forhilnor orbitava a distanza maggiore dal sole, rispetto alla Terra.
Le piante erano verdi: la clorofilla, un altro composto che secondo Hollus mostrava segni di progettazione intelligente, era il processo chimico migliore per il suo compito, non importa in quale pianeta ci si trovasse. Le cose che avevano la funzione di foglie erano perfettamente rotonde, sostenute da un gambo centrale, E al posto della corteccia dove c’era l’equivalente del legno, i tronchi erano rivestiti di un materiale semitrasparente, simile al cristallo che copriva i globi oculari di Hollus.
Hollus era sempre visibile, in piedi accanto a me. Pochi degli animali che vedevo parevano basati sulla stessa struttura corporea del suo e in quei pochi gli otto arti erano indifferenziati: tutti usati per la locomozione, nessuno per la manipolazione. Le altre forme di vita per la maggior parte avevano cinque arti, non otto: presumibilmente si trattava dei pentapodi esotermici ai quali Hollus aveva accennato in precedenza. Alcuni pentapodi avevano zampe lunghissime che tenevano il corpo a grande altezza. Altri avevano zampe così tozze che il corpo sfiorava il terreno. Guardai, stupito, un pentapode usare le cinque zampe per stordire a calci un octopode e poi calare sulla vittima il proprio corpo, evidentemente munito di bocca nella parte inferiore.
Non c’erano creature volanti, anche se vidi pentapodi (che chiamai “parasoli”) muniti di membrane distese fra i cinque arti. Si paracadutavano dagli alberi e parevano in grado di controllare la discesa grazie al movimento di arti specifici, ravvicinati o distesi, allo scopo di posarsi sul dorso di pentapodi e di octopodi, per ucciderli mediante aculei ventrali velenosi.
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