«Di preciso ancora non lo so, ma posso dirti che la conferenza stampa del presidente non ha niente a che vedere con scandali sessuali o finanziamenti elettorali.»
Gabrielle avvertì un'ondata di speranza e desiderò disperatamente crederle. «Come lo sai?»
«Qualcuno, dall'interno della Casa Bianca, ha appena fatto trapelare la voce che la conferenza stampa sarà sulla NASA.»
Gabrielle scattò a sedere. «La NASA?»
Yolanda assentì con un cenno del capo. «Questa potrebbe essere la tua sera fortunata. Scommetto che Herney, messo sotto pressione dal senatore Sexton, ha deciso che la Casa Bianca non ha altra scelta che staccare la spina della stazione spaziale internazionale. Il che spiegherebbe il risalto mondiale che vuole dare alla notizia.»
"Una conferenza stampa per annunciare la chiusura della stazione spaziale?" A Gabrielle sembrò improbabile.
Yolanda si alzò. «La mossa della Tench di oggi pomeriggio è stata probabilmente l'estremo tentativo di trovare un appiglio contro Sexton prima che Herney dia al pubblico la brutta notizia. Non c'è nulla come uno scandalo sessuale per distogliere l'attenzione dall'ennesimo insuccesso della Casa Bianca. Comunque, Gabs, ora ho da fare. Ti consiglio di prendere una tazza di caffè, sederti qui a guardare la mia trasmissione e cavalcare l'evento come tutti noi. Mancano venti minuti, ormai, e ti dico con sicurezza che è impensabile che il presidente intenda pescare nel torbido, stasera. Va in mondovisione. Quello che ha da dire è sicuramente una notizia di gran peso.» Le ammiccò con fare rassicurante. «Ora dammi quella cartellina.»
«Cosa?»
Yolanda le tese la mano con aria decisa. «Queste foto resteranno chiuse nella mia scrivania finché tutto non sarà finito. Voglio essere sicura che tu non commetta un'idiozia.»
Gabrielle le porse la cartellina con una certa riluttanza.
Yolanda chiuse le foto in un cassetto e mise in tasca la chiave. «Mi ringrazierai, Gabs. Ne puoi star certa.» Prima di uscire, le arruffò i capelli con gesto affettuoso. «Tieniti forte. Credo che stiano per arrivare buone notizie.»
Gabrielle, rimasta sola nel cubicolo di vetro, si sforzò di condividere l'ottimismo dell'amica, ma l'unica cosa che le venne in mente fu il ghigno compiaciuto di Marjorie Tench, quel pomeriggio. Ignorava che cosa stesse per annunciare al mondo il presidente, ma di certo non sarebbe stato niente di buono per il senatore Sexton.
Rachel Sexton aveva la sensazione di bruciare viva.
"Piove fuoco!"
Aprì gli occhi a fatica, ma non riuscì a vedere altro che forme indistinte e luci accecanti. Cadeva su di lei una pioggia bollente. Sdraiata sul fianco, sentiva mattonelle incandescenti sotto il corpo. Si rannicchiò in posizione fetale, cercando di proteggersi dal liquido ustionante che cadeva dall'alto. Un odore chimico, forse di cloro. Tentò di strisciare via, ma senza successo. Mani forti le premevano le spalle, inchiodandola.
"Lasciatemi andare! Sto bruciando!"
D'istinto, si divincolò nel tentativo di fuggire, ma ancora una volta fu bloccata da quelle mani possenti. «Stia ferma» ordinò una voce maschile e professionale dall'accento americano. «Non durerà ancora molto.»
"Che cosa non durerà? Il dolore, la mia vita?" Cercò di mettere a fuoco. C'erano luci violente in quella stanza che sentiva piccola, limitata. Il soffitto era basso.
«Sto bruciando!» L'urlo uscì come un mormorio.
«Lei sta bene» disse la voce. «L'acqua è tiepida, si fidi.»
Rachel si accorse di indossare soltanto la biancheria bagnata, ma non provò imbarazzo: la mente era piena di ben altre domande.
I ricordi si susseguivano incessanti. La banchisa. Il GPR. L'aggressione. "Chi erano? E adesso dove mi trovo?" Cercò di ricomporre i pezzi, ma la mente era intorpidita come uno strumento inceppato. In quella nebbiosa confusione, un solo pensiero: "Michael e Corky… dove sono?".
Cercò di mettere a fuoco, ma non vide che gli uomini chini su di lei, tutti vestiti con identiche tute blu. Voleva parlare, però la bocca rifiutava di articolare le parole. La sensazione di bruciore sulla pelle stava cedendo a improvvise ondate di dolore che le percorrevano i muscoli come scosse sismiche.
«Si rilassi» disse l'uomo vicino a lei. «Il sangue deve rifluire nella muscolatura.» Parlava come un medico. «Cerchi di muovere gli arti più che può.»
Un dolore straziante, la sensazione che ogni muscolo fosse preso a martellate. Distesa sulle piastrelle, il torace contratto, riusciva a malapena a respirare.
«Muova braccia e gambe» insisteva l'uomo. «Si sforzi.»
Rachel tentò, ma ogni movimento era come una coltellata alle giunture. I getti d'acqua divennero più caldi. Di nuovo l'ustione. Una sofferenza straziante. Nel preciso istante in cui pensò di non poter resistere un altro momento, sentì che qualcuno le praticava un'iniezione. Il dolore si attenuò, sempre meno violento; il tremito si placò. Riusciva a respirare.
Una nuova sensazione si diffuse per il suo corpo, uno strano formicolio. Ovunque, piccole punture, sempre più fitte. Milioni di minuscole punture d'ago che si intensificavano appena si spostava. Cercò di restare immobile, ma i getti d'acqua continuavano a schiaffeggiarla. L'uomo le reggeva le braccia per fargliele muovere.
"Dio, se fa male!" Troppo debole per lottare, il viso rigato da lacrime di dolore e di spossatezza, serrò gli occhi per escludere il mondo.
Finalmente, il formicolio cominciò a diminuire. La pioggia dall'alto cessò. Aprì gli occhi: la visione si era schiarita.
Fu allora che li vide.
Corky e Tolland erano vicini a lei, bagnati e tremanti. Rachel comprese dall'espressione angosciata dei loro volti che dovevano aver sopportato un'esperienza analoga alla sua. Michael la guardò con occhi vitrei, iniettati di sangue, e abbozzò uno stentato sorriso con le labbra bluastre.
Rachel provò a mettersi seduta per guardarsi intorno. Erano tutti e tre vicini in un groviglio di membra tremanti, mezzi nudi, sul pavimento di una minuscola area docce.
Braccia forti la sorressero. Energici sconosciuti l'asciugarono per poi avvolgerla in una coperta. Venne distesa su una specie di lettino e massaggiata con vigore su braccia, gambe e piedi. Un'altra iniezione nel braccio.
«Adrenalina» disse qualcuno.
Rachel avvertì la droga scorrere nelle vene come una forza vitale che rinvigoriva i muscoli. Sentì il sangue riaffluire lentamente nelle membra, mentre le viscere erano ancora strette da una gelida morsa.
"Ritorno dal regno dei morti."
Sforzò gli occhi. Tolland e Corky, tremanti malgrado le coperte, venivano massaggiati vicino a lei. Anche a loro fu praticata un'iniezione. Capì con chiarezza che quel misterioso gruppo di uomini aveva appena salvato loro la vita. Molti erano fradici: evidentemente erano entrati sotto la doccia completamente vestiti per soccorrerli. Rachel non si capacitava che fossero riusciti a recuperare in tempo lei e i compagni. Ma non importava, in quel momento. "Siamo vivi."
«Dove… dove ci troviamo?» riuscì a dire, ma l'articolazione di quelle poche parole le provocò lancinanti fitte alla testa.
Le rispose l'uomo che la stava massaggiando. «Nell'infermeria di un sottomarino classe Los Angeles…»
« Attenti! » gridò qualcuno.
Rachel avvertì un improvviso trambusto intorno a lei. Si mise a sedere, sostenuta da uno degli uomini in tuta blu, che si affrettò a coprirla. Si strofinò gli occhi e vide qualcuno entrare a passo deciso nel locale.
Il nuovo arrivato era un imponente afroamericano, bello e imperioso, in divisa color cachi. «Riposo!» ordinò, mentre si avvicinava a Rachel e la osservava con attenzione. «Sono Harold Brown» disse con voce profonda e autoritaria. «Comandante del sottomarino statunitense Charlotte. Lei come si chiama?»
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