La scrivania a cui era seduto Zach Herney nello Studio Ovale era appartenuta un tempo al suo idolo, Harry Truman. Anche se piccola per gli standard moderni, gli serviva a ricordare ogni giorno che tutti gli "oneri" arrivavano lì e che era lui a dover rispondere delle eventuali deficienze della sua amministrazione. Herney accettava gli oneri come un onore e faceva tutto il possibile per motivare il proprio staff ad agire per il meglio.
«Signor presidente?» La segretaria fece capolino dalla porta dell'ufficio. «È in linea.»
Herney la ringraziò con un cenno della mano.
Sollevò la cornetta. Avrebbe preferito fare quella telefonata in privato, ma non era proprio possibile in quel momento. Due truccatori gli giravano intorno come zanzare per sistemargli viso e capelli. Di fronte alla scrivania stava prendendo posto la troupe televisiva, e un interminabile stuolo di consiglieri e addetti alle pubbliche relazioni affollava l'ufficio, discutendo animatamente la strategia.
"Manca un'ora…"
Herney premette il pulsante illuminato sul telefono privato. «Pronto, Lawrence?»
«Ci sono.» La voce del direttore appariva affaticata e distante.
«Tutto bene lì?»
«Sta per arrivare una tempesta, ma i miei sostengono che non disturberà il collegamento via satellite. Siamo pronti a partire. Un'ora al via.»
«Ottimo. Il morale è alto, spero.»
«Può giurarci. Lo staff è al settimo cielo, anzi, per la verità abbiamo appena brindato con la birra.»
Herney commentò con una risata. «Ne sono lieto. Senta, volevo ringraziarla prima dell'evento. Stasera ci sarà una confusione bestiale.»
Il direttore fece una pausa, stranamente esitante. «Non c'è dubbio, signore. Abbiamo aspettato a lungo questo momento.»
«Sembra molto stanco.»
«Ho bisogno di un po' di sole e di un letto vero.»
«Resista ancora un'ora. Sorrida alle telecamere, si goda il momento e poi manderemo lassù un aereo per riportarla a Washington.»
«Non vedo l'ora.» Il direttore ripiombò nel silenzio.
Abile negoziatore, Herney era molto bravo ad ascoltare e percepire le cose non dette, nascoste tra le righe. Nel tono del direttore della NASA, qualcosa non andava. «Sicuro che vada tutto bene, lassù?»
«Certo. Nessun problema con i collegamenti.» Sembrò ansioso di cambiare argomento. «Ha visto l'ultima versione del documentario di Michael Tolland?»
«Poco fa. Un lavoro fantastico.»
«Infatti. È stata una buona idea coinvolgerlo.»
«È ancora arrabbiato con me per aver chiamato i civili?»
«Certo, per la miseria!» Il direttore parve recuperare il buonumore; la voce era tornata ferma e decisa come al solito.
Herney se ne rallegrò. "Ekstrom sta bene, è solo un po' stanco" si disse. «Okay, ci vediamo tra un'ora via satellite. Daremo a tutti qualcosa di cui parlare.»
«Giusto.»
«Ehi, Lawrence!» Il tono di Herney si fece basso e solenne. «È stato veramente in gamba. Non lo dimenticherò mai.»
Fuori dall'habisfera investita dal vento, Delta-Tre faticò per raddrizzare la slitta di Norah Mangor. Risistemata a bordo la strumentazione, assicurò l'incerata e vi legò sopra il corpo della donna. Mentre si preparava a trainare la slitta fuori rotta, vide sopraggiungere i compagni che avevano risalito il ghiacciaio.
«Il piano è cambiato» gridò Delta-Uno, cercando di sovrastare il rumore del vento. «Gli altri tre sono precipitati dalla banchisa.»
Delta-Tre non ne fu sorpreso, ma capì anche che cosa significava. Il loro progetto di inscenare un incidente sistemando i quattro cadaveri sulla banchisa non era più praticabile e lasciare soltanto un corpo avrebbe sollevato interrogativi più che dare risposte. «Ripuliamo?»
Delta-Uno annuì. «Io recupero le torce, voi vi liberate della slitta.»
Ripercorse a ritroso il tragitto degli scienziati per cancellare ogni segno del loro passaggio, mentre Delta-Tre e il compagno scesero per il ghiacciaio con la slitta carica. Faticarono non poco a superare le berme, quindi raggiunsero il limite della banchisa. Una spinta, e Norah Mangor e la sua slitta scivolarono silenziosamente oltre il bordo, a capofitto nel mare Artico.
"Un'azione pulita" pensò Delta-Tre.
Di ritorno alla base, si compiacque nel notare che il vento stava cancellando le tracce dei loro sci.
Il sottomarino nucleare Charlotte era appostato da cinque giorni nel mare Artico. La sua presenza in quel luogo era assolutamente top secret.
Il sommergibile, della classe Los Angeles, è progettato per "ascoltare e non essere ascoltato". I motori a turbina da quarantadue tonnellate poggiano su martinetti per attutire eventuali vibrazioni. Malgrado la necessità di passare inosservato, è uno dei più grandi sottomarini da ricognizione esistenti al mondo. Con i suoi centodieci metri da prua a poppa, se posto su un campo da football americano toccherebbe entrambe le linee di meta. Sette volte più lungo del primo sottomarino della marina statunitense, classe Holland, il Charlotte ha un dislocamento in immersione di 6927 tonnellate e può viaggiare alla stupefacente velocità di trentacinque nodi.
Normalmente la profondità di crociera è appena al di sotto del termoclino, un gradiente termico naturale che distorce i riflessi dei sonar e rende lo scafo invisibile ai radar di superficie. Con un equipaggio di centoquarantotto uomini, può raggiungere la profondità massima di quasi cinquecento metri e rappresenta l'ultima generazione in fatto di sottomarini, il "mulo" della marina degli Stati Uniti. Il sistema di ossigenazione a elettrolisi evaporativa, due reattori nucleari e l'elevata autonomia gli consentono di circumnavigare il globo ventun volte senza riemergere. I rifiuti organici dell'equipaggio, come sulla maggior parte delle navi da crociera, vengono compressi in blocchi di trenta chili ed espulsi in mare, enormi mattoni di feci definiti scherzosamente "stronzi di balena".
Il tecnico seduto davanti allo schermo dell'oscilloscopio nel locale del sonar era uno dei migliori del mondo, la sua mente un archivio di suoni e onde sonore. Poteva distinguere i rumori di decine di eliche di sottomarini russi, centinaia di animali marini e individuare vulcani sommersi addirittura in Giappone.
In quel momento, però, era all'ascolto di un rumore ripetitivo, sordo. Anche se chiaramente identificabile, era del tutto inatteso. «Stenterai a credere alle tue orecchie» disse al suo vice, porgendogli le cuffie.
Indossate le cuffie, l'assistente assunse un'espressione incredula. «Mio Dio. Chiaro come il sole. Che possiamo fare?»
Quando il comandante arrivò nel locale del sonar, il tecnico gli trasmise il rumore dal vivo attraverso un piccolo set di altoparlanti.
Il comandante ascoltò, il volto privo di espressione.
BONG. BONG. BONG.
BONG… BONG… BONG…
BONG. BONG. BONG.
Sempre più lento. Lo schema diveniva meno preciso, più debole.
«Quali sono le coordinate?» chiese il comandante.
Il tecnico si schiarì la gola. «Per la verità, signore, proviene dalla superficie, circa tre miglia a dritta.»
Nel corridoio buio fuori dal salotto del senatore Sexton, Gabrielle Ashe sentiva tremare le gambe, non per essere rimasta tanto a lungo immobile, ma per la disillusione provocata dai discorsi che stava ascoltando. Anche se la riunione nella stanza accanto era ancora in corso, lei aveva sentito a sufficienza. La penosa verità era più che ovvia.
"Il senatore Sexton riceve soldi in nero dalle agenzie spaziali private." Marjorie Tench non aveva mentito.
Ciò che più la disgustava era il tradimento. Aveva creduto in Sexton, lottato per lui. "Come può fare una cosa del genere?" L'aveva visto mentire in pubblico, di tanto in tanto, per proteggere la sua vita privata, ma qui si trattava di politica, questo significava infrangere la legge.
Читать дальше