"Non è stato ancora eletto, e già vende la Casa Bianca!"
Gabrielle sapeva di non poter più sostenere il senatore. Promettere di approvare l'atto sulla privatizzazione della NASA implicava un arrogante disprezzo per la legge e il sistema democratico. Anche se lui riteneva che fosse nell'interesse della collettività, vendere quella decisione in anticipo significava chiudere la porta ai controlli e agli equilibri del governo, ignorando le argomentazioni potenzialmente persuasive del Congresso, dei consiglieri, degli elettori e delle lobby. Soprattutto, promettendo la privatizzazione della NASA, Sexton lastricava la strada agli innumerevoli abusi che sarebbero derivati da tale conoscenza anticipata, a cominciare dall'insider trading, palesemente favorevole a quel manipolo di ricconi a spese degli onesti investitori pubblici.
Con un senso di nausea, Gabrielle si chiese che fare.
Lo squillo acuto di un telefono, alle sue spalle, ruppe il silenzio in corridoio. Gabrielle si voltò, spaventata. Il suono proveniva dall'armadio nell'ingresso, evidentemente il cellulare nella tasca del cappotto di un ospite.
«Scusatemi, amici» disse una voce dal forte accento texano. «È il mio.»
Gabrielle sentì che l'uomo si alzava. "Viene da questa parte!" Risalì di volata il corridoio e, a metà strada, svoltò a sinistra, infilandosi nella cucina buia proprio nel momento in cui il texano usciva dal salotto. Gabrielle rimase immobile nell'ombra.
Il texano le passò accanto senza accorgersi di lei.
Malgrado il rimbombo del cuore che le martellava in petto, sentì l'uomo frugare nell'armadio. Finalmente rispose.
«Sì? Quando…? Davvero? Accendiamo subito. Grazie.» Chiuse la comunicazione e, mentre tornava in salotto, chiamò gli altri. «Ehi! Accendete il televisore! Pare che Zach Herney abbia convocato una conferenza stampa urgente per stasera alle otto. A reti unificate. O dichiariamo guerra alla Cina, oppure la stazione spaziale internazionale è appena caduta in mare.»
«Be', questo sì che meriterebbe un brindisi!» gridò qualcuno.
Tutti risero.
Gabrielle sentì vorticare intorno a sé le pareti della cucina. "Una conferenza stampa alle otto?" La Tench non aveva bluffato, allora. Le aveva dato tempo fino alle venti per consegnarle la dichiarazione in cui confessava la relazione, consigliandole di prendere le distanze dal senatore prima che fosse troppo tardi. Gabrielle aveva pensato che quella scadenza fosse stata fissata per dare modo alla Casa Bianca di lasciar trapelare la notizia ai giornali l'indomani, ma evidentemente era stato deciso di rendere comunque pubblica la cosa.
"Una conferenza stampa urgente?" Più ci rifletteva, più le pareva strano. "Herney che parla in diretta di questo casino? Lui in persona?"
Dal soggiorno, il televisore risuonò a tutto volume. Il tono del presentatore era molto eccitato. «La Casa Bianca non ha fatto alcuna anticipazione sull'argomento del comunicato a sorpresa del presidente, e le illazioni abbondano. Alcuni analisti politici ritengono che, data la recente assenza dalla scena elettorale, Zach Herney stia per annunciare che rinuncia a ripresentarsi per il secondo mandato.»
Un applauso di speranza si levò nel salotto.
"Assurdo" pensò Gabrielle. Con tutte le cose sporche che la Casa Bianca aveva in mano su Sexton, non c'era una possibilità al mondo che il presidente gettasse la spugna, quella sera. "Questa conferenza stampa riguarda qualcos'altro." Gabrielle aveva l'angosciante presentimento di sapere di che cosa si trattasse.
Con ansia crescente guardò l'orologio. Mancava meno di un'ora. Doveva prendere una decisione e sapeva esattamente con chi parlare. Stringendo sotto il braccio la cartellina delle foto, uscì dall'appartamento senza fare rumore.
La guardia del corpo parve sollevata nel vederla. «Ho sentito voci allegre, dentro. A quanto pare è stata accolta calorosamente.»
Gabrielle gli rivolse un sorriso veloce prima di dirigersi verso l'ascensore.
In strada, al tramonto, l'aria pareva insolitamente fresca. Chiamò un taxi con la mano, salì e cercò di rassicurarsi. Aveva chiaro in mente che cosa fare.
«Studi televisivi ABC» disse all'autista. «E in fretta.»
Sdraiato di fianco sul ghiaccio, Michael Tolland posò la testa sul braccio disteso, ormai privo di sensibilità. Si sforzò di tenere aperte le palpebre, pesanti come piombo. Da quella strana angolazione, osservò le ultime immagini del suo mondo, ormai ridotto solo a mare e ghiaccio. La conclusione più naturale di una giornata in cui nulla era andato come previsto.
Una calma sinistra era scesa sulla zattera di ghiaccio. Rachel e Corky non parlavano più e i colpi erano cessati. Il vento soffiava con minore violenza a mano a mano che si allontanavano dalla banchisa. Sentì che anche il suo corpo si calmava. Col cappuccio stretto in testa, udiva il proprio respiro amplificato, sempre più lento… e sempre più lieve. L'organismo non era più in grado di contrastare il senso di oppressione indotto dal sangue che lascia le estremità — come un equipaggio che abbandona una nave in difficoltà — per fluire verso gli organi vitali nell'estremo tentativo di mantenere le funzioni essenziali.
Una battaglia persa.
Stranamente, non avvertiva più alcun dolore. Aveva già superato quello stadio. La sensazione prevalente era di gonfiore. Intorpidimento. Fluttuazione. Iniziò a fermarsi il primo dei riflessi automatici, il battito delle palpebre, e la vista si fece confusa. L'umor acqueo tra la cornea e il cristallino stava congelando. Si voltò verso la banchisa di Milne, ormai soltanto una debole forma bianca illuminata dalla luna.
In cuor suo accettava ormai la sconfitta. In stato di semincoscienza, fissò le onde in lontananza. Il vento ululava intorno a lui.
Fu allora che cominciò l'allucinazione. Negli ultimi secondi prima di perdere i sensi non gli si presentò l'immagine dei soccorsi, non provò sensazioni di calore né di conforto. La sua ultima illusione fu terrificante.
Un leviatano si levò dall'acqua vicino all'iceberg, rompendo la superficie con un minaccioso sibilo. Come un mitico mostro marino, snello, nero e letale, comparve tra l'acqua spumeggiante. Tolland riuscì a fatica a battere gli occhi per rischiarare la vista. La bestia era vicina e urtava contro il ghiaccio come un mastodontico squalo che colpisca a testate una barchetta. Enorme, torreggiò davanti a lui, con la pelle bagnata e lucente.
L'immagine sfocata si oscurò e restarono soltanto i suoni. Metallo contro metallo. Denti che mordevano il ghiaccio. Sempre più vicini. I corpi trascinati via.
"Rachel…"
Si sentì afferrare bruscamente.
Poi, buio totale.
Gabrielle Ashe entrò a passo veloce nella redazione del notiziario, al terzo piano del palazzo dell'ABC. Tutti i presenti, peraltro, si muovevano più in fretta di lei. Lì l'attività era febbrile ventiquattr'ore al giorno, ma in quel momento ricordava il salone delle grida della Borsa. I redattori in preda all'agitazione si urlavano a vicenda dalle loro postazioni, i cronisti brandivano fax e passavano da una scrivania all'altra raffrontando le note, mentre frenetici praticanti mandavano giù Snickers e Mountain Dew tra una corsa e l'altra.
Gabrielle era andata alla ABC per parlare con Yolanda Cole.
Di solito la si trovava nei quartieri alti della produzione, negli uffici chiusi da vetrate riservati a chi deve prendere decisioni importanti e ha bisogno di quiete per riflettere. Quella sera, invece, anche Yolanda era nel salone, nel mezzo della calca. Quando vide Gabrielle, la salutò con la consueta esuberanza.
«Gabs!» Indossava un ampio abito di batik e occhiali di tartaruga. Come al solito esibiva chili di bigiotteria appariscente. Avanzò ancheggiando, sbracciandosi. «Un bacio!»
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