«Non sono qui per discutere…» replicò lui, interrompendosi subito. Osservò il resto della stanza, gli scaffali vuoti, le scatole dell'archivio sul pavimento: aperte, spaccate, svuotate.
Per un momento rimase lì, senza scomporsi, in silenzio, immobile: sentiva soltanto il ritmico tonfo del suo cuore.
Merda, sa esattamente dove colpirmi. Poi avanzò, ignorando Veronica che stava in piedi, calma, al suo fianco, e si accovacciò tra i resti, con mani tremanti. Mentre esaminava i contenitori – sollevandoli, girandoli, scuotendoli, scorrendoli – già sapeva che avrebbe trovato ben poco. Sapeva quanto diligentemente un cuore ferito come quello di Veronica sapesse fare il suo lavoro.
«Be'?» esclamò lui infine, appoggiandosi ai talloni, respirando a fatica. «Allora? Cos'hai fatto? Dove hai messo tutto?»
Lei si strinse nelle spalle come se quel suo interesse la sorprendesse e si girò con noncuranza verso la finestra. Con riluttanza lui seguì il suo sguardo. Dietro le tende chiare, sollevate, alcuni fili di fumo salivano pigramente verso la luna.
«Merda», sospirò lui. «Già, è ovvio, avrei dovuto immaginarlo.» Stancamente si alzò e attraversò la stanza, appoggiando le dita fredde sul telaio della finestra. E lì, proprio come si era aspettato, dall'altra parte della trincea, illuminato di rosso e di nero dai tizzoni, stava Penderecki, intento ad aprire il coperchio dell'inceneritore per gettarvi dentro un altro mucchio, fischiettando e sorridendo come se avesse atteso l'arrivo di Jack.
«Oh, Veronica.» Appoggiò la fronte rovente contro il vetro ed emise un lungo respiro. «Sarebbe stato meglio se mi avessi strappato il cuore.»
«Dai, Jack, non esagerare.»
«Troia», mormorò lui. «Piccola troia.»
«Come? Che cos'hai detto?»
«Puttana.» Jack si voltò con calma verso di lei. «Ti ho chiamata puttana.»
«Tu sei pazzo», esclamò lei, incredula. «Sai, a volte mi fai sperare che quel pervertito abbia davvero ucciso tuo fratello. E anche lentamente.» La sua faccia si contorse. «Perché te lo meriti, Jack. Te lo meriti per il modo in cui stai uccidendo me. Tu mi stai uccidendo… » Ma lui l'aveva ormai afferrata per il braccio. I bottoni del polsino schizzarono nella stanza. « Jack! »
Lui la trascinò alla porta, calpestando e sparpagliando i contenitori vuoti.
«Jack!» urlò di nuovo Veronica, sferrandogli un calcio. « Lasciami andare, Jack! »
«Sta' zitta.» La rabbia lo aveva reso forte e calmo. La trascinò lungo le scale, godendo della sua impotenza, del suo inutile gridare e combattere, le unghie curate che si spezzavano sulla balaustra. Alla fine delle scale si fermò e la tenne a un braccio di distanza, osservandola.
« Cristo. » Lei si divincolò, liberando il braccio, e fece un passo indietro, massaggiandosi il gomito, gli occhi sgranati, i capelli arruffati. Le era scoppiato un capillare nella cornea dell'occhio sinistro, ma il viso era asciutto. L'aveva spaventata. «Non mi toccare mai più, hai capito? Non…»
«Sta' solo zitta e ascolta.»
«Papà la prenderà molto seriamente se ti avvicini ancora a me…»
«Ho detto: sta' zitta e ascolta.» Jack avvicinò la faccia a quella di lei. «Te lo dirò una volta sola: girami ancora intorno e io ti uccido. Parlo sul serio: ti ammazzo. È chiaro?»
«Jack… per favore…»
Lui la scosse violentemente. « È chiaro? » gridò.
«Sì, sì!» Improvvisamente Veronica cominciò a piangere. «Adesso toglimi le mani di dosso, d'accordo? Basta che tu mi tolga le tue fottute mani di dosso.»
«Fuori di casa mia.» La lasciò andare, la bocca piegata in una smorfia di disgusto mentre spalancava la porta d'ingresso. «Vai. Vai fuori. Esci da casa mia, subito.»
«Va bene, va bene», borbottò Veronica, avviandosi e guardando dietro le spalle per assicurarsi che lui non la seguisse. «Me ne vado, d'accordo?»
Jack andò in soggiorno, prese le ceste di vimini e le portò fino all'ingresso.
Veronica si trovava sul sentiero del giardino e, tutta tremante, stava componendo un numero sul cellulare. Quando la porta si aprì, indietreggiò, impaurita. Poi vide ciò che lui teneva in mano e la sua espressione mutò.
«Oh, no», gemette. «Costano una fortuna.»
Lui le passò davanti e fuori, in strada, lanciò le due ceste in aria. Piroettarono graziosamente, sputando fuori bicchieri di cristallo e stoffa verde, rimbalzarono sul cofano della Tigra, scheggiando il parabrezza, e infine ricaddero al centro della strada.
«Dico sul serio, Veronica», le mormorò all'orecchio, passandole accanto mentre tornava indietro sul sentiero. «Ti ucciderò.» Sbatté la porta, la chiuse col catenaccio e andò in cucina per cercare il Glenmorangie.
La sveglia suonò alle sette del mattino e lui era lì, sdraiato su un fianco, a guardare le ombre delle foglie sui muri. Dopo un'eternità, si rigirò sulla schiena, si coprì gli occhi e cominciò a respirare pesantemente.
Troppo oltre. Questa volta era andata troppo oltre.
Nel corso degli anni ce n'erano state altre come Veronica; altre relazioni erano finite male nel giro di alcuni mesi. Eppure, persino dove c'era stata amarezza, la vendetta non era mai stata tanto violenta, non l'aveva mai ferito così.
Devo imparare qualcosa da questo? È forse una « lezione di vita » ?
Si premette le tempie e pensò a Rebecca mentre si scostava i capelli castani dagli occhi. Si domandava se avrebbe rovinato tutto anche in quel caso, si domandava quanto tempo avrebbe impiegato per rovinare la relazione.
Sei mesi, forse. O un anno, se si fosse impegnato. E poi si sarebbe ritrovato al punto di prima. Solo. Senza figli. Pensò ai genitori, ottimisti, pieni di speranza: avevano dato inizio alla vita dei loro due figli proprio lì, in quella camera da letto, nel corso di due luminose estati.
«Jack, Jack…» mormorò tra sé. «Dacci un taglio.» Si sollevò sui gomiti, guardando con occhi semichiusi la luce del mattino, e trascinò il telefono sul letto. Rebecca rispose subito, la voce assonnata.
«Ti ho svegliata?»
«Sì.»
«Sono il detect… Rebecca, sono io, Jack.»
«Lo so», rispose lei, in tono neutro.
«Scusami per ieri sera.»
«Non importa.»
«Mi chiedevo…»
«Sì?»
«Magari stasera. Potremmo vederci per un drink. O a cena?»
«No.» E, dopo un attimo di silenzio, aggiunse: «No, non credo sia il caso». E riattaccò.
Ti serva di lezione, Jack, pensò lui, e scese dal letto.
Maddox, il viso riposato e una camicia a maniche corte, lo incontrò in corridoio a Shrivermoor, con una tazza di caffè in mano.
«Jack? Che succede? Non sarà ancora quel piccolo pervertito?»
«Non è niente.»
«Hai un aspetto di merda.»
«Grazie.»
«Com'era il traffico?»
«Non troppo pesante. Perché?»
Maddox estrasse dalla tasca le chiavi della macchina della squadra e le fece tintinnare. «Perché adesso ti giri e torni indietro.»
«Che cos'è successo?»
«Probabilmente abbiamo trovato Peace Jackson. Una donna l'ha scoperta in un cassonetto delle immondizie un quarto d'ora fa.»
Royal Hill, che collega Greenwich a Lewisham, sale come se, pur desiderando arrivare alla stessa altezza di Blackheath, a un certo punto si fosse scoraggiata; dopo quattrocento metri gira a sinistra e sprofonda, fino a incontrare South Street. Quando arrivarono e parcheggiarono la macchina, si era già formato un capannello di persone. Dalle finestre più alte i vicini sbirciavano con le braccia conserte, le tende di pizzo agganciate per non essere d'ingombro. Gli impresari di pompe funebri incaricati dal coroner, due uomini corpulenti con gilet scuri ricamati e cravatte nere, aspettavano in piedi accanto al loro Ford Transit nero. Un agente stava cingendo col nastro il piccolo giardino anteriore e, sul sentierino di cemento, non contrassegnato in nessun modo se non dalla distanza cui si tenevano i poliziotti, c'era il cassonetto. Il detective Basset si trovava al cancello, la testa china, assorto in conversazione con la Quinn. Quando notò Maddox che espletava le procedure di riconoscimento con l'agente, gli si avvicinò, tendendogli la mano.
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