L'avrebbe violentata.
Oh, Dio mio, no! Inspirò profondamente e cercò di non urlare. Forza, Susan, si disse poi. Mantieni la calma, pensa in modo logico: Harteveld è morto. Questa è una violenza carnale e tu hai sempre detto che avresti superato uno stupro, se l'avessi subito… Lo hai letto tante volte: sopravvivrai se non reagisci, se ti adegui a tutto ciò che ti dice lui e annoti mentalmente ciò che senti e vedi. In modo chiaro. Tutto quanto. D'accordo? Adesso… Pronta?
Fece quattro respiri profondi e sollevò lo sguardo.
La stanza, dal soffitto alto, aveva due porte a pannelli. Un camino, curvo sui tre lati – doveva essere una ristrutturazione -, era fiancheggiato da scaffali in finto legno, contenenti libri rilegati, testi tecnici di qualche sorta. La risata in lontananza veniva da un televisore cui era stato abbassato il volume. Stavano trasmettendo un episodio di Vita da strega. Probabilmente si trattava di un canale via cavo, il che limitava il numero delle strade in cui poteva trovarsi. Per un istante si rincuorò. Ma poi vide ciò che era appeso alle pareti e le sfuggì un grido.
Fotografie, strappate da riviste pornografiche; atti che non avrebbe mai concepito, nemmeno nelle sue fantasie più oscure. Una mostrava un bambino che veniva sodomizzato.
Cominciò a tremare.
Susan! Susan. No… Non farti prendere dal panico. Se cadi in preda al panico potresti morire. Distaccati. Sii imparziale… Sii una spettatrice. Sii spettatrice.
Ma la sua mente fiduciosa si stava indebolendo. Ruotando la testa in su e all'indietro scorse, sparpagliati sul pavimento a circa mezzo metro di distanza, sette od otto libri. Alcuni erano aperti, altri chiusi, i titoli erano impressi in rilievo in oro opaco.
Appletown e Lange – lesse, concentrando lo sguardo -, Appleton e Lange. Preparazione all'esame di tecnica chirurgica. E, accanto a quello: Atlante di chirurgia plastica cranio-facciale, Procedure chirurgiche palliative del carcinoma non resecabile, Biopsia mammaria.
La paura s'insinuò più profondamente nel suo petto.
Susan lasciò cadere la testa e prese a singhiozzare.
Krishnamurthi era a tre quarti dell'autopsia. Chino sul tavolo settorio, travasava con un mestolo i liquidi della cavità corporea di Peace in un contenitore per misurazione che si trovava all'altezza delle gambe di lui. «Bene, ragazzi», esclamò infine, raddrizzandosi e guardandosi intorno nella stanza. «Che ne dite se oggi facciamo un tentativo con la Virchow, giusto per tenerci in allenamento? Passami le pinze, Paula.» La tecnica gliele diede. Con cautela, il medico estrasse una piccola massa grondante dal corpo della Jackson e la posò sulla bilancia. Paula segnò il peso su una lavagna. Nessuno parve sorpreso dall'uccello. Il caso Harteveld era ormai tristemente noto: sapevano tutti che cosa aspettarsi.
«Bene. Adesso…» commentò Krishnamurthi scrutando nella cavità toracica. «Sì, avulsione estesa come abbiamo visto nelle altre…»
«Avulsione…» ripeté Jack. «Che cos'è?»
«Si dice così quando il tessuto viene strappato dall'osso o dal tessuto connettivale naturale.» Krishnamurthi sollevò il viso protetto dalla mascherina e guardò il detective, aggiungendo: «Ah, signor Caffery…»
«Sì?»
«La vostra consulente della Scientifica, Jane Amedure, mi ha detto che questa vittima è stata ritrovata in un luogo diverso…»
«È così.»
«E non è mai stata portata nell'area industriale?»
«No, è sorvegliata da due settimane. Perché?»
«C'è della polvere di cemento tra i suoi capelli e sulla sua faccia, proprio come sulle altre. E con le altre avevamo pensato che la polvere provenisse dall'area industriale.»
Jack aggrottò le sopracciglia. «Bene», mormorò, premendosi lievemente le dita sulle tempie. L'appartamento a Halesowen Road.
Il medico sollevò lo sguardo. «Fiona Quinn deve esaminare un'altra abitazione, questo pomeriggio: le dirò di ricercare tracce di cemento.»
Che cosa mai troveranno?
Susan lo sentì entrare nella stanza e immediatamente si acquietò.
Era sdraiata, immobile. Si stava preparando. Lo udì attraversare la stanza fino al lato opposto e battere tre volte contro il muro. Era agitato.
Fallo ragionare. Puoi tirarti fuori da questa situazione. Parla… Fa' che ti consideri una persona. Lui vuole renderti un oggetto. Non permetterglielo.
Ogni muscolo in allarme, pronta a parlare, a combattere per la propria vita, Susan osò aprire lentamente gli occhi.
Lui non la stava nemmeno guardando.
Era a quasi un metro da lei. Indossava un camice da ospedale azzurro e una mascherina da chirurgo; i capelli erano nascosti in una cuffia a scacchi, simile a quelle usate nelle sale operatorie. Ai suoi piedi, c'era una scatola rossa di plastica portastrumenti. Era basso, grassoccio, ma agile, Susan lo sapeva dal modo in cui la sera precedente aveva scavalcato i sedili della macchina. Ed era forte, più forte di quanto avesse creduto.
L'uomo stava osservando attentamente la foto di una donna dal viso piccolo e liscio, da bambola. Capelli biondi. Trucco pesante, ombretto blu e labbra lucide, color prugna. Lui premette le mani sulla foto, coprendo i lineamenti, i grandi pollici appoggiati esattamente sopra la bocca, come se avesse voluto raggiungere i denti, la lingua, le tonsille.
Poi, improvvisamente, si voltò. «Allora?»
Susan trasalì. Sapeva che lo stavo guardando. Senza nemmeno vedermi sapeva che lo stavo guardando.
«Allora?» ripeté l'uomo, avvicinandosi a lei. Gli occhi apparivano irrequieti al di sopra della mascherina.
«Mi chiamo Susan», disse lei, parlando velocemente, senza balbettare. Non dimostrargli che hai paura. «Mio padre è un magistrato. È molto potente.»
«Un magistrato!» La voce dell'uomo era allegra, divertita. «Questo dovrebbe preoccuparmi ?»
«No… io… Cosa vuoi da me? »
«Tu cosa pensi? Cosa credi che voglia?»
Prega che ti violenti e basta. Susan, prega che non ci sia altro.
«Per favore, non farmi del male.» Lei si raggomitolò, singhiozzando, cercando invano di coprirsi il seno con le braccia legate. «Per favore, no.»
«Non è scomodo avere tette così grosse?» sbottò lui e, allungando le mani sudate, le afferrò i seni, cercando di controllare la sua reazione. «Come fai a sederti a tavola con quei cosi davanti? Non ti danno fastidio?»
Susan indietreggiò. Aveva sentito la mano scorrerle sull'addome, sull'inguine. « Per favore, no, per favore… »
Lui si alzò e un grumo di muco marrone cadde a pochi centimetri dal viso di Susan. «Lo sai che cosa devo fare, vero?»
Lei scosse la testa, mentre le lacrime le bagnavano i capelli.
«Rispondimi.»
«Non farmi del male…»
«Ho detto: lo sai che cosa ci devo fare con le tue grosse tette del cazzo?» quasi urlò, sferrandole un calcio al fianco. Poi, improvvisamente la sua voce divenne calma. «E smettila di piangere. Disturbi la signora Frobisher.»
Susan, ansimando, si girò su se stessa, sempre singhiozzando.
Lui sedette a cavalcioni sopra di lei, bloccandole le spalle tra le ginocchia grassocce. Prendendola per i capelli, le voltò la testa. «Ascolta, adesso.»
Si allungò e aprì la cassetta portastrumenti.
Susan riuscì a vedere forbici, pinzette, un pennello affusolato di zibellino, una trousse di ombretti iridescenti, turchese, pesca, fucsia, rosso…
«Questo può andare.» Lo scatto del metallo, lo schiocco dei guanti in lattice che venivano indossati, qualcosa che veniva estratto dalla cassetta… Oddio, che cos'è quello? Un bisturi?
Lui si chinò e le prese il seno destro. «Adesso.» Una goccia di sudore cadde dalla fronte dell'uomo sui capelli di Susan. «Allora, siamo pronti?»
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