«Mi piacerebbe.»
«Mio fratello, Ewan, mi spinse. Avevo otto anni. U nero doveva scomparire, ma non è andata così. I dottori sono sconcertati. Per loro sono un mistero scientifico.»
«Spero che tu l'abbia ucciso, per questo.»
«Chi?»
«Tuo fratello.»
«No… io…» Fece una pausa. «No, l'ho perdonato. Credo.»
Jack sembrò chiudersi in se stesso e Rebecca si accigliò. «Quello che ho detto…»
«Non fa niente, non fa niente.» Jack stappò la bottiglia e le versò il vino nel bicchiere.
«Mi dispiace, non intendevo… Talvolta non ho proprio tatto.»
«No!» Lui sollevò una mano. «Veramente, Rebecca. Davvero… non… preoccuparti.»
Si fissarono: Rebecca era disorientata, Jack aveva un finto sorriso di sicurezza stampato in faccia. Il cellulare nella sua giacca colmò quel vuoto imbarazzante mettendosi a trillare e facendoli sobbalzare entrambi.
«Oddio.» Jack posò la bottiglia, si alzò, prese la manica tra l'indice e il medio e trascinò la giacca sull'erba. «Che tempismo… Scusami.»
«Ma certo», rispose lei, contenta di quel diversivo.
Jack prese la comunicazione.
«L'ho fatto.» Aveva una voce molto fioca.
«Veronica?»
«L'ho fatto.»
Jack guardò Rebecca e si allontanò, coprendo il microfono con la mano. «Veronica, dove sei?»
«L'ho fatto. Finalmente l'ho fatto.»
«Non parlare per indovinelli.»
Silenzio.
«Veronica?»
«Bastardo.» Lei trattenne il respiro come se stesse piangendo. «Te lo sei meritato.»
«Senti…»
Ma lei aveva già riattaccato.
Jack sospirò, mise il telefono tra i piedi e sollevò lo sguardo verso Rebecca. Stava tracciando linee nell'erba con l'estremità del pennello, senza guardarlo.
«Chi era?» chiese poi.
«Una donna.»
«Ah. Veronica? È questo il suo nome?»
«Sì.»
«Che cosa voleva?»
«Attenzione.»
«Ah», osservò Becky, appoggiando il mento sulla mano e guardandolo. «E tu hai intenzione di prestargliene?»
«No.»
Rebecca annuì. «Capisco.»
Non ti crede, Jack.
Lui cercò una sigaretta, e improvvisamente, da dietro i tetti rossi dell'Osservatorio, un gruppo di storni vocianti si alzò in aria. Jack si fermò e li fissò, impiegabilmente sorpreso. «Uccelli.»
Rebecca reclinò la testa per guardarli e la luce del crepuscolo le scivolò sul viso. Sorrise, citando due versi di Keats: «Tu non sei nato per la morte, uccello immortale! / Nessuna generazione affamata ti calpesta». Gli storni rotearono nell'aria, si fermarono per un breve istante, poi caddero in picchiata verso la terra, riempiendo l'aria di ali. Lei si rannicchiò, mormorando: «Oh…» Ma gli uccelli girarono di nuovo e scomparvero all'improvviso, com'erano apparsi, oltre la collina. Una piuma ondeggiò nell'aria e cadde ai piedi di Jack.
«Pensavo che volessero attaccarci!» esclamò lei, ridendo. Poi si sistemò i capelli, ridacchiando del suo nervosismo. Quando scorse l'espressione sul viso di Jack si bloccò. «Che cosa c'è?»
«Non lo so…» Lui scosse la testa. Aveva visto gli uccelli da vicino, aveva visto le iridi maculate e provato una contrazione allo stomaco. Pensò a Veronica, al mucchio d'ossa, al suo sorriso affascinato, malsano, nel momento in cui Penderecki era entrato nella stanza, neanche fosse stata lei a programmarne la comparsa. Improvvisamente spense la sigaretta e si alzò. «È meglio che vada.»
«Allora le presterai attenzione.»
«Sì», rispose lui, srotolandosi le maniche. «Credo di sì.»
La Tigra rossa di Veronica era parcheggiata fuori della casa. Con compiacimento. Come se avesse il diritto di stare lì. Era buio, ormai. Sopra i tetti, dalla parte di Penderecki, oltre la ferrovia, una sottile colonna di fumo si levava al cielo. La casa era avvolta nell'oscurità. Jack entrò con cautela, preparato al peggio.
«Veronica?» Rimase immobile, nervoso in casa sua. «Veronica?»
Silenzio. Accese la luce del corridoio e si fermò. Era tutto come lui l'aveva lasciato: il tappeto dell'ingresso leggermente spostato, la borsa della tintoria dimenticata contro il battiscopa… Attraverso la porta aperta della cucina scorse persino la tazza del caffè che aveva bevuto quel mattino. Chiuse la porta, appese la giacca alla balaustra e andò in cucina.
«Veronica?» Mancava l'aria, lì dentro. Sul davanzale della finestra una delle piante di Veronica, una buganvillea di un rosso ripugnante, era fiorita. Gli sembrava che stesse filtrando tutto l'ossigeno di casa coi suoi petali grassi e sgargianti. In fretta aprì la finestra, lasciò entrare in cucina l'odore acuto del fumo e bevve una sorsata veloce direttamente dalla bottiglia di Glenmorangie.
Il soggiorno era tranquillo: i preziosi bicchieri nelle loro ceste di vimini stavano ancora aspettando di essere portati via. Aprì le porte finestre e tornò in corridoio. In sala da pranzo scoprì la prima prova della presenza di Veronica. La stanza era stata pulita completamente, in maniera ossessiva: il profumo del lucido per mobili alla lavanda era ancora forte nell'aria.
Rimase nel corridoio a lungo prima di notare, appoggiato sulla mensola del caminetto, un biglietto coi bordi neri, come quelli usati per le condoglianze. Il messaggio era semplice.
Vaffanculo, Jack.
Con affetto, Veronica.
«Grazie, Veronica.» S'infilò il biglietto in tasca, aprì i bovindi e tornò in corridoio. Gli unici rumori erano il ticchettio dell'orologio del nonno e il ronzio meccanico e pigro di una mosca morente. Di sopra, allora. Lei doveva essere di sopra.
«Sono qui, Veronica.» Si fermò a metà strada dal pianerottolo, guardando le porte chiuse delle camere da letto. «Veronica.» Silenzio. Mosse gli ultimi passi e si fermò, posando la mano sulla porta della stanza da letto.
Improvvisamente si sentì sopraffatto dalla stanchezza. Se Veronica, sdraiata sul suo letto, si era fatta un'overdose di farmaci, allora lui avrebbe passato un'altra notte insonne.
Pronto soccorso. Lavanda gastrica. Visita psichiatrica. La famiglia, grigia come il granito, seduta in silenzio. E senza dire neppure una parola gli avrebbe fatto capire che il responsabile era lui.
Oppure lui avrebbe potuto – il pensiero lo fece tremare -, sì, avrebbe potuto voltarsi e uscire dalla porta. Chiamare Rebecca, scusarsi per essersene andato, incontrarla per un drink, trascorrere la serata con lei cercando di portarsela a letto, mentre Veronica se ne andava silenziosamente, da sola.
Rimase in piedi, il cuore che batteva all'impazzata, mentre quell'idea svaniva rapidamente com'era arrivata. Jack fece un lungo, profondo respiro e lentamente, molto lentamente, aprì la porta della camera da letto.
«Merda.»
Aveva fatto il letto e aveva spolverato anche lì. Ma non c'erano impressionanti immagini di morte, nessuno schizzo di sangue sul muro, nessuna bottiglietta vuota di farmaci. Non c'era nemmeno Veronica.
Rapidamente controllò l'armadio. Tutto era come doveva essere, compresi gli asciugamani piegati ordinatamente in pile bianche. La sveglia, accanto al letto, ticchettava. Allora si trovava nella camera di Ewan… Ritornò sul pianerottolo e vide che la porta di quella stanza era aperta. Veronica stava a mezzo metro da essa e lo fissava.
«Veronica.»
Si studiarono per un momento, le pulsazioni alle stelle. Lei indossava una camicia bianca di seta e pantaloni larghi, sempre bianchi, di lino; una sciarpa decorata con piccole fibbie d'oro era fermata al collo da una spilla di diamanti. Appariva pallida, controllata. Nulla suggeriva che avesse provato a farsi del male.
«Perché sei a casa mia?»
«Sono venuta a prendere i bicchieri di mamma. È permesso?»
«Prendili e vattene.»
«Un po' di educazione.» Inspirò, inarcando le sopracciglia. «Conosci questa parola, Jack? Educazione. »
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