A quel che sembrava, la donna aveva colto tracce delle lacrime fantasma, perché la sua voce era gentile. «Ti serve un soprabito. Ne ho uno qui. Credo sia la tua taglia. Le tue scarpe da corsa purtroppo sono da buttare. Non ho potuto farci niente.» Le mostrò un paio di stivali da cavallo. «Che te ne pare?» Erano di buon cuoio nero, con dettagli western.
«Perfetti. E il soprabito l'ho già trovato io.»
Augusta gettò un'occhiata dubbiosa all'indumento posato sulla cassa di cedro. Il lungo spolverino nero era di moda quando ancora i cavalli erano l'unico mezzo di trasporto nella regione: «Sembra impossibile che quel vecchio straccio stia ancora insieme. Ha molti più anni di me. È tuo, se ti piace».
La donna aprì un armadio e cominciò a tirar fuori alcune scatole dallo scaffale in alto. «C'è un cappello che dovrebbe essere adatto, se solo riuscissi a ricordarmi dov'è. Lo portava mia nonna quando andava a cavallo.» Una grande scatola rotonda si disfò fra le sue mani e un cappello nero rotolò sul tappeto. Augusta lo raccolse e lo rigirò fra le mani, lisciando la calotta e l'ampia falda.
«Non coprirà tutti quei capelli d'oro.» Allungò una mano verso un altro ripiano. «Ma potremo rimediare servendoci di questo.» Le mostrò un foulard nero.
Mallory scostò un altro paio di tende. La luce di una seconda finestra inondò la stanza, eliminando ogni ombra dagli angoli. Si volse verso lo specchio, e studiò la camicia bianca di lino. Il morbido taglio romantico era molto lontano dai suoi gusti severi e asciutti, ma la linea fluttuante nascondeva del tutto la fasciatura. Si infilò la fondina da spalla, trasalendo quando le cinghie di cuoio passarono sulla ferita.
Augusta era in piedi alle sue spalle e parlava al suo riflesso. «Dovresti trovare un altro modo di portare la pistola. La spalla sinistra ti farà male per un po'. Non recupererai tutta la forza e la mobilità per un'altra settimana. Ma ho guarito la mia gatta da ferite ben peggiori.»
Riprendendo il discorso che avevano iniziato a colazione, Mallory domandò: «Perché il padre di Ira si suicidò?».
«Suicidarsi? Andiamo, non esagerare. Il padre di Ira non era un bravo guidatore. La sua macchina aveva un sacco di ammaccature ben prima che finisse contro quel palo del telefono.» Augusta aprì il cassetto di un altro armadio e frugò fra le vecchie cose. «Forse possiamo provare a fissare la tua fondina a una cintura.»
«La compagnia di assicurazione non voleva pagare» disse Mallory. Aveva consultato il database dell'agenzia assicurativa locale, ma il rapporto dell'investigatore era superficiale e incompleto. Non le era stato più utile dei dati che aveva estratto dal computer dello sceriffo.
«Sì, il tizio dell'assicurazione sulle prime piantò delle grane. Ma alla fine pagò l'intero risarcimento.» Augusta le mostrò una sottile striscia di cuoio. Ma dopo uno sguardo alla grossa pistola di Mallory la scartò scuotendo il capo. «Darlene usò i soldi della polizza per ricomprare la sua casa dalla New Church. Pare che il marito avesse firmato il passaggio di proprietà come donazione, per evitare le tasse.»
«Credevo che la New Church riguardasse la famiglia Laurie.»
«Non esclusivamente. Ma dubito che il padre di Ira fosse tanto religioso. Credo che stesse solo cercando un modo di truffare l'erario. Chi rinunciava alla proprietà della propria casa poteva abitarci senza pagare una lira di affitto fino alla morte.» Aveva trovato una spessa cintura con una grossa fibbia e la sollevò per guardarla meglio. «Ecco, questa può andare.» La porse a Mallory. «Fu così che Malcolm finì per impadronirsi di tutte quelle belle proprietà lungo il Lower Bayou. Convinse un sacco di sciocchi che il miglior modo di conservare qualcosa era darlo via, che il miglior modo di risparmiare quattrini era non guadagnarne affatto.»
Mallory infilò la fondina nella cintura. «Ma perché la compagnia di assicurazione contestò la tesi dell'incidente? Ci dovevano essere…»
«Solo una formalità, tutto qui. Accade sempre quando c'è una modifica nei documenti apportata qualche giorno prima della morte di un cliente. La polizza originaria era a favore della New Church, ma lui la cambiò, indicando il nome di Darlene come unica beneficiaria.»
Così il padre di Ira aveva rotto i rapporti con la New Church prima di andare a cozzare – frontalmente e a tutta velocità – contro il palo del telefono, secondo quanto riferito dal vicesceriffo Travis nel rapporto sull'incidente.
L'aria era più fredda quella mattina. In piedi sul portico di Darlene Wooley, Charles si abbottonò la nuova giacca sportiva mentre guardava la piazza di Dayborn animarsi a poco a poco: la gente che camminava per andare al lavoro, le macchine che superavano lentamente la fontana, gli amici che si scambiavano saluti.
Ira non avrebbe mai fatto parte di quel mondo. L'autismo era una religione solitària, nella quale l'attenzione era rivolta all'interno, su di sé; eppure Charles si chiese chi fra quegli individui apparentemente estroversi avrebbe mai notato la scomparsa di una stella.
La porta si aprì alle sue spalle. Si girò e vide il volto stanco ma sorridente di Darlene Wooley. «Bene, Charles Butler. Pensavo che fosse partito.» Spalancò la porta e indietreggiò per permettergli di entrare. «Mi stavo preparando per andare al lavoro. Posso offrirle una tazza di caffè? È già pronto.»
«Sì, grazie.» La seguì in un'ampia stanza arredata con perfetta simmetria. Un divano e un tavolino erano posti esattamente al centro di una parete con ai lati due poltrone identiche. Al centro delle pareti laterali c'erano altri due tavolini e i quadri erano appesi secondo uno schema fisso: uno più grande fiancheggiato da due più piccoli. Mallory avrebbe approvato, perché era tutto molto ordinato, sebbene alcune poltrone avessero braccioli e cuscini segnati dall'usura.
«Mi piacerebbe salutare Ira, se non le dispiace.»
«Certo che no. Si ricorda molto bene di lei. Ogni volta che andiamo a pranzo al Jane's Café ripete: "uomo del panino". Si sieda.»
Charles si accomodò su una poltrona dal rivestimento vistosamente rammendato.
«La casa non è cambiata negli ultimi vent'anni» gli spiegò Darlene in tono di scusa. «La tappezzeria e la disposizione dei mobili sono rimaste gli stessi. La più piccola novità comporterebbe una grande fatica per Ira, costringendolo a memorizzare daccapo tutta la stanza. Quando non è a scuola, passa la maggior parte del suo tempo qui a casa.»
«Io l'ho visto al cimitero.»
«Era il suo posto preferito. Fino a poco tempo fa, le pietre erano immobili, sempre identiche a se stesse.»
«Ha visto la statua?»
«No. Gli ho detto di non andarci per un po', almeno fino a quando lo sceriffo non avrà scoperto quel che accade laggiù.» Fece una pausa e riprese: «Così è venuto a trovare Ira. Che bello. Sono anni che non riceve visite. Torno fra un attimo». E andò in cucina. Un minuto dopo ricomparve e gli porse una tazza di caffè. «Niente latte, tre zollette, vero?»
«Sì, grazie. A essere sinceri, nutro un interesse professionale nei confronti di Ira. Ho telefonato al direttore del Centro Dallheim di New Orleans. Fanno ricerche sulle doti dei savant per apprendere quanto più possibile sul funzionamento del cervello. Hanno un programma terapeutico per giovani autistici. Prevede anni di duro lavoro, ma al termine del percorso Ira potrebbe riuscire a conquistare una vita indipendente.»
«So tutto del Dallheim.» Darlene si lasciò sprofondare nel divano, gli occhi fissi sulla sua tazza di caffè. «Era il mio grande sogno, un futuro quasi normale per Ira. Ora come ora…» Lo guardò in faccia, cercando accuratamente le parole. «Se dovesse succedermi qualcosa, finirebbe in un istituto. Supplicai quelli del Dallheim di prenderlo. Mi dissero di non tornare fino a quando Ira non fosse stato in grado di sostenere una semplice conversazione.»
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