Iain Banks - Complicità

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Cameron, reporter del Caledonian e maniaco di computer game, si mette sulle tracce di un nemico crudele, un uomo solo che si erge a giudice, giuria e boia di tutti coloro che hanno commesso un errore troppo grave per essere perdonato. Quale oscura complicità lega Cameron all’inafferrabile serial-killer?

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Il giorno seguente frego una Lambert Butler a Rose, della redazione esteri; la fumo seduto alla mia scrivania e provo un vero sballo, seguito da un profondo disgusto per me stesso. Giuro che è davvero l’ultima che fumo. Stavolta ne sono proprio convinto e decido che merito un premio: comprerò qualcosa, sfruttando il recente innalzamento del limite di utilizzo della mia carta di credito. La macchina ha bisogno di una revisione, a me servirebbe un vestito nuovo e la moquette dell’appartamento è quasi lisa, ma nessuna di queste ipotesi dilapidanti possiede un reale potere di autogratificazione, anzi. Mentre me ne sto seduto a rileggere l’articolo sul whisky — che sto mettendo insieme molto lentamente — mi sento la bocca asciutta e intanto penso a che cosa potrei fare con tutta quella grana in più.

Apro un cassetto e tiro fuori una rivista di computer. Cinquecento pagine patinate e interamente a colori più un dischetto gratis per meno di due sterline. È il numero di novembre, ma i prezzi potrebbero già essere superati; di solito con i computer scendono, ma questa volta magari sono saliti perché, ora che siamo usciti dallo SME e la sterlina sta colando a picco nei confronti del dollaro, il prezzo dei componenti fabbricati all’estero sarà sicuramente aumentato.

Sfoglio la rivista, alla ricerca delle pubblicità dei laptop.

Cazzo, uno di questi me lo posso permettere; uno a colori , voglio dire, uno sul quale giocare a Despot. Anzitutto perché lo posso detrarre dalle tasse (in fondo, lo uso per lavoro) e secondariamente perché sto smettendo di fumare: significa un risparmio di almeno venti sterline alla settimana, anche ammettendo che non la piantassi con l’anfetamina. In questi ultimi tempi, il prezzo dei laptop 386 è sceso velocemente, e gli schermi a colori non sono più considerati un lusso nel mercato dei portatili. Ma sì, si può fare!

Prima che la parte del mio cervello più dotata di buon senso trovi argomentazioni convincenti sul fatto che con quel denaro potrei fare dell’altro, chiamo una ditta di Cumbernauld di cui ho sentito parlare molto bene e faccio due chiacchiere con uno dei venditori. Discuto con lui di quello che mi serve, e conveniamo che tanto vale prendere un 486. Questo significa spendere un po’ di più di quello che pensavo, ma in fondo ne vale la pena. È necessario anche un hard disk decente e, ovviamente, una batteria di ricambio. Inoltre, avrò bisogno di un cavo per trasferire i dati dal mio PC di casa al laptop e viceversa. Con un piccolo extra, poi, posso avere anche un hard disk rimovibile, cosa che non solo rende i miei dati più sicuri, ma consente una facile sostituzione del disco rigido se questo finisse con il rivelarsi insufficiente. Dopotutto, stiamo parlando di una macchina di qualità: non avrò più bisogno di cambiarla per molti anni. Vale la pena spendere un po’ di più per garantirsi un prodotto che non diventi obsoleto troppo in fretta. Loro non ritirano l’usato, ma il venditore mi assicura che non avrò la minima difficoltà a vendere un Toshiba, anche se il modello è vecchio; dopotutto un Tosh è sempre un Tosh.

Ci mettiamo d’accordo sull’esatta configurazione. Ne hanno uno pronto. Posso andare a prenderlo oggi, domani, quando voglio, oppure me lo possono recapitare loro nel giro di due giorni, e la consegna costa solo un deca.

Decido di andare a prendermelo. Gli do il numero della mia carta di credito per il deposito e rimaniamo d’accordo che andrò da loro, in ditta, nel giro di due ore. Dovrò acquistare quell’accidente a credito, ma il sistema di finanziamento che adottano mi sembra ragionevole. (Sono vicino al limite dello scoperto, anche se è quasi ora che arrivi lo stipendio e riporti, anche se per poco, il mio conto corrente in nero, prima che ritorni tranquillamente in rosso per il resto del mese.) Ci sarebbero anche alcuni conti da pagare, ma quelli possono aspettare.

Sono così eccitato che finisco l’articolo sul whisky in mezz’ora.

«Bene, Frank», gli dico, infilandomi la giacca. «Io vado a Cumbernauld.»

«Ah, vuoi dire Combustibile.»

«Come?»

«Controllo ortografico: ‘Combustibile’. Ah, ah.»

«Ah, già.»

«Torni, più tardi?»

«Ne dubito.»

Faccio il giro della stanza, con il respiro che si fa veloce e profondo. Lei continua a piroettare su se stessa, seguendomi, mettendosi di fronte a me, con il corpo che luccica. Ansimo; il petto si alza e si abbassa, le mani sono tese davanti a me, i piedi stridono sulle piastrelle. Sento il cazzo che dondola tra le gambe. Lei emette un rumore — mezzo grugnito, mezzo risata — e fa un balzo verso il bagno. La afferro per una caviglia, ma il balzo si rivela una finta; lei schizza nella direzione opposta, aprendo la porta. La pelle unta d’olio mi scivola tra le dita, barcollo e rischio di cadere nella Jacuzzi, dopo aver picchiato il ginocchio contro la base piastrellata. Lei scompare, sbattendosi la porta alle spalle. Massaggio il punto dolorante, poi apro la porta di scatto, attraverso di corsa lo spogliatoio e arrivo nella stanza fiocamente illuminata. Nessun segno della sua presenza. Rimango lì in piedi, continuando a massaggiarmi il ginocchio, respirando con la bocca per fare meno rumore possibile e poterla sentire. Il letto è molto grande, ancora disfatto, le testate di mogano brillano nel debole chiarore proveniente dai punti luce nascosti dietro i mobiletti laterali che, collegati da mensole, formano un blocco unico con la testiera. Vado di fianco al letto, mi giro per lanciare un’occhiata in direzione del bagno, poi mi accuccio lentamente, sentendo il cazzo che s’infila tra le caviglie con un delizioso fremito di anticipazione. Sollevo le coperte, scivolate di lato sul pavimento, e lancio una rapida occhiata sotto il letto.

Improvvisamente percepisco un rumore dietro di me e faccio per voltarmi e alzarmi (in un lampo, capisco che si era nascosta nell’armadio dello spogliatoio), ma è troppo tardi. Mi piomba addosso, colpendomi la schiena e il fianco, togliendomi il fiato e gettandomi sul letto, dove cado a faccia in giù sulle lenzuola di raso nero, schiacciandomi dolorosamente l’uccello tra le cosce. Prima che possa fare un solo movimento, lei mi si siede sopra, a cavalcioni; le gambe agili e muscolose, unte d’olio, scivolano sui miei fianchi, mentre il bel culetto sodo mi schiaccia la parte bassa della schiena, imprigionandomi ancora di più. Mi afferra il braccio destro, lo torce finché non urlo di dolore e poi lo tira in alto, verso il collo, tenendolo bloccato lì, circa un centimetro sotto il punto in cui il dolore diventerebbe insopportabile, solo qualche centimetro sotto il punto in cui l’omero si romperebbe.

Ben mi sta. Ho voluto giocare a questo gioco con una donna che ha frequentato un corso di autodifesa femminile, che regolarmente mi straccia a squash — o con la tecnica o con la forza, dipende dall’umore in cui è — e che si allena seriamente con i pesi. Percuoto le lucide lenzuola nere con l’altra mano.

«Va bene. Hai vinto.»

Grugnisce, poi spinge in su il braccio finché non urlo di dolore. «Ho detto va bene!» urlo. «Farò tutto quello che vuoi!»

Mi lascia andare, rotola giù dalla mia schiena e si sdraia di fianco a me, ansimando e ridendo a ogni respiro, con i seni che si sollevano e si abbassano, e improvvisamente si mette a ridacchiare, facendo tremare appena il ventre piatto. Allora mi sollevo e mi getto su di lei, ma lei rotola via. Atterro sulle lenzuola. Lei tira via una gamba che è rimasta imprigionata sotto di me, si alza in piedi e resta lì a osservarmi, di fianco al letto, con le braccia lungo i fianchi. Tiene i piedi leggermente divaricati. Fisso il triangolino scuro dei peli pubici, gemendo piano.

«Devi avere pazienza», dice lei, facendo un respiro profondo e passandosi una mano tra i capelli corti. Si volta e si allontana sulla folta moquette color crema, camminando in punta di piedi come una ballerina. Arrivata davanti a un armadio a muro, si allunga per prendere qualcosa dal ripiano più alto, e io lancio un altro gemito, drammatico, osservando i muscoli dei polpacci e delle natiche che si contraggono, le fossette in fondo alla schiena che si fanno più profonde e più lunghe, mentre l’ombra dei seni danza sulle ante dell’armadio in frassino lucido e, sull’altro lato, si riflette, nuda e bella da far male, sugli specchi. È in punta di piedi, e sta cercando qualcosa a tastoni sul ripiano dell’armadio. La collinetta carnosa del suo sesso spunta scura tra le gambe, un frutto prezioso, succulento, appena intravisto. Mi lascio cadere all’indietro sul letto, incapace di sopportare oltre.

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