Iain Banks - Complicità

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Cameron, reporter del Caledonian e maniaco di computer game, si mette sulle tracce di un nemico crudele, un uomo solo che si erge a giudice, giuria e boia di tutti coloro che hanno commesso un errore troppo grave per essere perdonato. Quale oscura complicità lega Cameron all’inafferrabile serial-killer?

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Gli dai un paio di minuti, riponi il visore notturno e tiri fuori un paio di occhiali spessi con la montatura di metallo, quindi vai verso il porticato sul davanti e cominci a bussare con insistenza alla pesante porta di legno.

Prendi la bottiglietta e l’assorbente igienico dalla tasca, passi le alette dell’assorbente intorno alle dita, lo inzuppi con il liquido contenuto nella bottiglietta, la metti via, e tieni il tampone puzzolente ben chiuso nel pugno.

Bussi ancora alla porta, con più forza.

«Sir Rufus!» gridi, quando senti dei rumori dietro la porta. «Sir Rufus! Sono Ivor Owen, abito qui vicino.» Sei abbastanza soddisfatto del tuo rude accento gallese. «Presto, Sir Rufus. La sua macchina!»

Senti una voce dall’accento inglese che borbotta: «Cosa?!» e il catenaccio che scorre. Lasci che la porta si apra del tutto. Il signor Carter ha in mano un fucile, ma lo tiene puntato verso il basso. Non sapresti dire se ha il dito sul grilletto oppure no, però non hai scelta; ti lanci in avanti, colpendolo con un forte pugno allo stomaco. Lui se ne esce con un: «Ooof!» e si piega in due, mentre anche le ginocchia gli cedono. Il fucile gli cade di mano; ti sposti di lato e gli premi l’assorbente sulla bocca, poi ti posizioni dietro le spalle e gli passi l’altro braccio intorno al collo. Lui riesce a spingerti all’indietro contro la parete: ti cadono gli occhiali, ma non molli la presa. Ansima ancora, cerca di respirare, e l’etere fa effetto velocemente. Si affloscia e crolla a terra. Ti abbassi insieme a lui verso il pavimento, continuando a tenergli l’assorbente premuto sul viso. Si dibatte ancora una volta — un movimento molto debole — e poi rimane immobile.

Le chiavi del cottage sono nella tasca dei calzoni. Appoggi l’uomo alla parete e ti dirigi alla porta. Spegni la luce nell’ingresso, prendi il visore notturno dallo zaino e ti guardi in giro. Sembra tutto tranquillo. Chiudi la porta a chiave, però non inserisci il sistema di allarme. Ti togli i baffi e la parrucca, raccogli gli occhiali rotti dal pavimento e infili tutto nello zaino. Poi prendi il passamontagna di seta e lo infili.

Dai un’occhiata alla cucina, ma il pavimento è di ardesia, non va bene. Lo trascini in soggiorno, fai cadere altro etere sull’assorbente, che gli lasci premuto sulla faccia, poi arrotoli il tappeto. Prendi la pistola sparachiodi dallo zaino e inchiodi l’uomo al pavimento, attraverso i vestiti, bloccando in cinque o sei punti le gambe dei calzoni e le maniche di giacca e camicia contro le spesse assi di legno. È un’operazione rumorosa. Gli togli l’assorbente dalla faccia e gli apri la bocca con la sparachiodi per accertarti che non si sia ingoiato la lingua. Poi gli giri la faccia di lato.

Sir Rufus Caius St. Leger Carter, per chiamarlo con il suo titolo completo e meravigliosamente inglese, sta sbavando sul pavimento polveroso.

Gli togli una scarpa e una calza, gli infili in bocca la calza appallottolata e gli sigilli le labbra con il nastro adesivo da carrozziere. Ci rifletti un attimo, punti la sparachiodi contro il polso della manica destra, proprio sopra il punto in cui la parte superiore del polso si congiunge con le ossa del braccio; il punto in cui i chiodi non si possono strappar via. Non sai neppure tu se farlo o no; i chiodi attraverso gli abiti lo terranno comunque immobilizzato, come un moderno Gulliver vestito da Armani; non c’è dunque bisogno d’inchiodargli anche le braccia. Sei convinto che sia più elegante usare la sparachiodi, ma non per fare la cosa più ovvia. Scuoti la testa e la metti via.

Lui geme, apre lentamente gli occhi e cerca di muoversi: non ci riesce, è ovvio. Le urla gli escono dal naso. Ormai ti stai abituando a questo rumore.

Lasci che urli e si agiti per un po’, intanto vai in cucina e, da lì, nel ripostiglio: vicino alla porta sul retro ci sono un paio di bombole di gas. Servono per la cucina e per il riscaldamento del cottage. Una è vuota, in attesa di essere ritirata. L’altra sembra piena. La fai rotolare fino al punto in cui si trova Sir Rufus, il quale, benché inchiodato al pavimento del soggiorno, sta facendo un gran casino. L’ambiente è molto freddo, eppure lui sta sudando. Un angolo del nastro adesivo che gli chiude la bocca si è staccato, e lui sta cercando di urlare qualcosa, ma non si capisce una parola.

Trascini una poltrona fin dove lui possa vederla, vicino al caminetto di pietra scura. Fai rotolare la bombola fino alla poltrona, poi la sollevi e l’appoggi ai braccioli, contro lo schienale. C’è il rischio che la poltrona si rovesci all’indietro, allora la spingi contro il caminetto, in modo che resti ferma. Sir Rufus sta ancora cercando di togliersi il bavaglio. Frughi nello zaino e tiri fuori la valvola e il pezzo di tubo di gomma che ha attaccato un cannello di ottone. Li colleghi alla bombola.

Si sente un rumore secco alle tue spalle, come se Sir Rufus stesse sputando. «Senta! Per amor del cielo! Cosa sta facendo? Sono ricco, posso…»

Ti avvicini a lui, gli piazzi un piede sopra la testa e versi altro etere sull’assorbente.

«Senta! Posso procurarmi del denaro! Cristo! No…!»

Gli premi l’assorbente sulla faccia. Oppone resistenza, si dibatte per un po’, quindi si affloscia. Gli metti un’altra striscia, più lunga, di nastro adesivo sulla bocca.

Ci vuole un po’ a sistemare il cannello sul sedile della poltrona. Poi, mentre stai provando il flusso di gas, senti un rumore, una specie di fischio seguito da un conato; ti giri in tempo per vedere due rivoletti di vomito che zampillano dalle narici di Sir Rufus e schizzano sulle assi del pavimento.

«Merda!» sussurri. Ti precipiti verso di lui, e gli strappi dalla bocca il nastro adesivo.

Boccheggia e sputacchia, sembra che stia per soffocare. Ha un altro conato; il vomito gli esce dalla bocca e si riversa sul pavimento. Senti odore d’aglio. Tossisce ancora un po’, poi riprende a respirare più normalmente.

Quando comincia a emettere suoni quasi comprensibili, e quando sei sicuro che non annegherà nel proprio vomito, lo afferri per quei pochi capelli che ha sulla nuca e gli giri il nastro adesivo intorno alla testa un paio di volte, chiudendogli nuovamente la bocca.

Riponi la tua roba nello zaino, mentre lui si muove, prima lentamente, poi con maggior energia, e i rumori gli escono dal naso prima deboli, poi più forti: gemiti, seguiti da quelle che, se potesse aprire la bocca, sarebbero urla.

Ti accucci di fianco alla poltrona, dove il tubo di gomma della bombola scende e fa un’ansa prima di terminare nel cannello. Posata sul cuscino della poltrona c’è la grata di ferro del caminetto; ha un’aria tetra, e indubitabilmente è fuori posto. Hai legato il cannello di ottone alla grata con il fil di ferro, puntandolo contro la superficie rossa e graffiata della bombola di gas circa quindici centimetri più sopra.

La testa di Sir Rufus è a circa un metro e mezzo dalla poltrona. La può vedere bene.

«Bene, Sir Rufus», dici, giocherellando con un ricciolo immaginario, e sempre imitando il cantilenante accento gallese. Dai un colpetto alla bombola. «Lei sa cos’è un blevey , vero?»

Sembra che gli stiano per schizzare gli occhi fuori dalle orbite. La voce, uscendo dal naso, risulta strozzata.

«Ma certo che lo sa», prosegui, sorridendo dietro il passamontagna e annuendo. «Quella nave, quella sua gasiera — be’, non sua, della sua società — ne ha provocato proprio uno quando è saltata in aria nel porto di Bombay, giusto?» Annuisci ancora; è una costante oscillazione della testa, un continuo dondolio che associ alla parlata gallese. «Un migliaio di morti, mi pare, no? Be’, però si trattava solo d’indiani. Siete ancora in causa, no? È una vera vergogna che queste cose richiedano sempre tanto tempo, no? Certo, modificare la struttura della società, far figurare che la nave era l’unico bene, insomma, questo le rende la vita un poco più facile, no? Immagino che resterà ben poca disponibilità per i risarcimenti.»

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