Iain Banks - Complicità

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Cameron, reporter del Caledonian e maniaco di computer game, si mette sulle tracce di un nemico crudele, un uomo solo che si erge a giudice, giuria e boia di tutti coloro che hanno commesso un errore troppo grave per essere perdonato. Quale oscura complicità lega Cameron all’inafferrabile serial-killer?

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Sto strabuzzando gli occhi, me ne rendo conto. «Cosa?» esplodo. «Giuro che non lo sapevo! Non è trapelato niente a proposito di Persimmon… Pensavo che fosse morto in pace nel suo letto!»

«Come lei certamente comprenderà, signor Colley, c’era un problema di sicurezza connesso alla morte del signor Persimmon.»

«E siete riusciti a tenerla nascosta per un mese?»

«Avevamo bisogno di un necrologio su uno dei giornali di Londra», spiega il sergente, facendo una smorfia ironica. «Ma si sono dimostrati disposti a collaborare.»

E non si è neanche saputo niente dal tam-tam della giungla dei giornalisti. Merda. Doveva trattarsi del Telegraph.

«E poi, venerdì notte, qualcuno ha fatto saltare per aria Sir Rufus Carter mentre si trovava nel suo cottage nel Galles. Era carbonizzato. Sono riusciti a malapena a identificare il corpo.»

Per un attimo non reagisco. Oh, Dio mio. «Ah, scusi, come ha detto?»

Ripete la frase e poi chiede: «Le dispiace se le chiediamo che cos’ha fatto venerdì sera, signor Colley?»

«Come?… Ah, sono rimasto a casa.»

Il sergente Flavell rivolge un’occhiata significativa all’ispettore, che, però, non la ricambia. Fa uno strano rumore con la bocca, come se aspirasse aria tra i denti, come se avesse infilato qualcosa fra un dente e l’altro e cercasse di toglierlo. Non credo che lo faccia consapevolmente. «Tutta la notte?» chiede.

«Eh?» Sono un po’ distratto. «Sì, tutta la notte. Stavo… lavorando.» Capisco che ha notato la mia esitazione. «E giocando al computer.» Guardo l’ispettore e poi il sergente. «Non c’è una legge che impedisce di giocare al computer, vero?»

Cristo, che stronzata! Mi sento un ragazzino davanti al preside, mi sembra di essere tornato a quella volta in cui Sir Andrew mi strapazzò a causa della mia fallimentare trasferta nel Golfo. Già allora era stata dura, ma questa volta è una cosa spaventosa. Non riesco a credere che mi stiano davvero rivolgendo ’ste domande. Non penseranno mica che sia un assassino? Sono un giornalista. Sono cinico, insensibile e via discorrendo, faccio uso di droga, guido troppo forte e odio i Tories e tutti i loro lacché, ma non sono un fottuto assassino, per Dio! Il sergente tira fuori un taccuino e incomincia a prendere appunti.

«Si è incontrato con qualcuno, quella sera?» chiede McDunn.

«Senta, io ero qui, a Edimburgo. Non ero nel Galles. Come diavolo avrei potuto andare da qui al Galles?»

«Non la stiamo accusando di niente, signor Colley», fa l’ispettore, con aria leggermente contrita. «Ha visto qualcuno quella sera, sì o no?»

«No, sono rimasto a casa.»

«Vive solo, signor Colley?»

«Sì. Ho lavorato un po’ e poi ho giocato a un gioco che si chiama Despot. »

«Non è venuto nessuno a farle visita, l’ha vista qualcuno?»

«No, nessuno.» Cerco di ricordare che cosa è successo quella sera. «Ho ricevuto una telefonata.»

«A che ora?»

«A mezzanotte.»

«Da chi?»

Ho un attimo di esitazione. «Sentite», dico, «mi state accusando di qualcosa? Perché, se è così, è ridicolo, ma io voglio un avvocato…»

«Lei non è accusato di nulla, signor Colley», m’interrompe l’ispettore, calmo e vagamente offeso. «Queste sono semplici indagini, tutto qui. Lei non è in arresto, lei non è costretto a dirci nulla e, se vuole, può richiedere la presenza di un avvocato.»

Certo, e se non collaboro potrebbero anche arrestarmi, o almeno farsi dare un mandato di perquisizione per l’appartamento. (Oh, oh! Ci sono dell’hashish, un po’ di anfe e almeno una vecchia pasticca di acido.)

«Be’, è solo che… Sono un giornalista, capite? Devo proteggere le mie fonti, se…»

«Ah. Dunque questa telefonata a mezzanotte era di natura professionale?» chiede l’ispettore.

«Hmm…» Merda. È il momento di prendere una decisione. Cosa faccio? Cazzo! Ad Andy non importerà di sicuro. Mi coprirà. «No», rispondo, «no, era un amico.»

«Un amico.»

«Si chiama Andy Gould.» Devo sillabargli il cognome in modo che il sergente possa prendere nota, e dare loro il numero di telefono del fatiscente albergo di Andy.

«È stato lui a chiamarla?» dice l’ispettore.

«Sì. Anzi, no. L’ho chiamato io, gli ho lasciato un messaggio sulla segreteria e lui mi ha richiamato qualche minuto dopo.»

«Capisco», annuisce l’ispettore. «E questo con il suo telefono di casa?»

«Sì.»

«Quello installato nel suo appartamento?»

« Sì! Non sul cellulare, se è questo che volete sapere.»

«Hmm, hmm», fa l’ispettore. Spegne accuratamente almeno tre centimetri buoni di sigaretta nel posacenere e tira fuori un piccolo taccuino, lo apre in un punto in cui le pagine sono tenute ferme con un elastico. Alza gli occhi dal taccuino e mi fissa. «E il 25 ottobre, il 4 settembre, il 6 agosto e il 15 giugno?»

Quasi quasi mi viene da ridere. «Sta parlando sul serio? Insomma, mi state chiedendo se ho un alibi?»

«Vorremmo semplicemente sapere che cos’ha fatto in questi giorni.»

«Be’, ero qui. Voglio dire, non ho mai lasciato la Scozia, non vado dalle parti di Londra né al sud almeno da un anno.»

L’ispettore sorride appena.

«Okay», dico. «Sentite, dovrei controllare la mia agenda.»

«Potrebbe andare a prenderla, signor Colley?»

«Be’, io la chiamo agenda, ma è nel mio laptop. Nel mio computer.»

«Ah, anche lei ne ha uno. Si trova qui in questo edificio?»

«Sì. È di sotto. Ne ho uno nuovo, ma tutti i file sono stati trasferiti. Lo vado…»

Faccio per alzarmi, ma l’ispettore solleva una mano. «Lasci che vada a prenderlo il sergente Flavell, eh?»

«Va bene.» Mi risiedo e annuisco. «È sulla mia scrivania», spiego al sergente, mentre questi si avvia alla porta.

L’ispettore si appoggia allo schienale e tira fuori il pacchetto di Benson Hedges. Vede che lo osservo e mi porge il pacchetto. «È proprio sicuro che non ne vuole una?» chiede.

«Hmm, sì, accetto, grazie», dico, allungando una mano per prenderne una e odiandomi per quello che sto facendo, ma poi penso: Cristo, questa è una circostanza eccezionale, ho bisogno di tutto l’aiuto possibile!

L’ispettore mi accende la sigaretta, poi si alza e va alla finestra che si affaccia su Princes Street. Mi giro sulla sedia per guardarlo. È una giornata burrascosa: ombre gettate dalle nuvole e chiazze di sole scivolano veloci sul volto della città, tingendo gli edifici di un grigio prima scuro e poi chiarissimo.

«Bella vista da qui, vero?» dice l’ispettore.

«Già. Fantastica.» La sigaretta mi provoca un’accettabile sensazione di ebbrezza. Dovrei smettere di fumare più spesso.

«Ho l’impressione che non la usino molto, questa sala.»

«No. Credo di no.»

«È davvero un peccato.»

«Già.»

«Sa, c’è una cosa strana», dice l’ispettore, guardando oltre la città, verso la lontana distesa del Fife, grigia e verde sotto le pesanti nuvole che incombono sul tratto più lontano del fiume. «La notte in cui Sir Toby è stato ucciso e la mattina in cui è stato ritrovato il signor Persimmon, qualcuno ha telefonato al Times affermando che si trattava di azioni dell’IRA.»

L’ispettore, con il viso coperto da una nuvola di fumo, si gira e mi scruta.

«Sì, be’, ho sentito dire che l’IRA aveva rivendicato l’uccisione di Sir Toby, ma poi l’aveva sconfessata.»

«Già», fa l’ispettore, guardando la sigaretta con aria apparentemente perplessa. «Chiunque sia stato, però, entrambe le volte ha usato la stessa parola in codice dell’IRA.»

«Oh?»

«Vede, signor Colley, è proprio questa, la cosa strana. Noi due sappiamo benissimo che ci sono parole in codice usate dall’IRA quando telefona per avvertire che ha piazzato una bomba oppure per assumersi la responsabilità di un omicidio o di qualche altro crimine. È necessario conoscere queste parole in codice, altrimenti chiunque potrebbe chiamare, spacciandosi per l’IRA; potrebbero bloccare tutta Londra, volendo. Ma il nostro assassino… Lui sapeva una delle parole in codice. Una di quelle recenti.»

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