Iain Banks - Complicità

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Cameron, reporter del Caledonian e maniaco di computer game, si mette sulle tracce di un nemico crudele, un uomo solo che si erge a giudice, giuria e boia di tutti coloro che hanno commesso un errore troppo grave per essere perdonato. Quale oscura complicità lega Cameron all’inafferrabile serial-killer?

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«Cameron, sono Neil.»

«Oh, sì… ciao, Neil.»

«Dunque… ti ho chiamato per dirti che mi dispiace, ma non posso aiutarti.»

«Ah… come?»

«Ti dicono niente le parole ‘buco nell’acqua’?»

«Come?»

«Lascia perdere. Come ti ho detto, non posso aiutarti, vecchio mio. È una strada senza uscita, capisci? Non c’è nessun legame, niente di niente. L’articolo è tuo, ma, se fossi in te, lascerei perdere.»

«Ah… hmm…»

«Ti senti bene?»

«Sì. Sì… altroché…»

«Mi sembri fatto.»

«Sì… Nooo!»

«Bene, mi fa piacere che abbiamo chiarito la cosa. Però, ti ripeto, non posso aiutarti. Stai facendo un buco nell’acqua, quindi lascia perdere.»

«Va bene, va bene.»

«Allora ti lascio tornare alla sostanza di cui stai facendo abuso in questo momento. Buonanotte, Cameron.»

«Sì, ’notte.»

Metto giù il telefono, mi siedo sul bordo del letto, e penso. Di che cazzo si tratta? Dunque questi tizi sono tutti morti per caso? Non c’è nessun collegamento con il mio signor Archer o con Daniel Smout? No, la cosa proprio non mi piace.

Mi sdraio di nuovo e cerco di dormire, ma non ci riesco e non riesco neanche a smettere di pensare a tizi legati agli alberi con un cappio intorno al collo che aspettano che passi il treno, o che decidono di fare il bagno con un trapano acceso nella vasca, o che annegano nella fossa biologica di una fattoria. Cerco di smettere di pensare a queste cose cruente e orribili; per un po’ penso a Y e mi masturbo, però non riesco ancora a prendere sonno e alla fine, dopo tanto non dormire, mi viene una voglia matta di una sigaretta, così mi alzo ed esco. In fondo devo aver dormito un po’, perché improvvisamente mi accorgo che sono le due e mezzo del mattino; non ci sono nemmeno un negozio o un bar aperti e a questo punto comincia a farmi male la testa, ma ho veramente bisogno di un po’ di tabacco e così arranco fino a Royal Circus e Howe Street finché un taxi si ferma e mi faccio portare per le strade deserte della città, su fino a Cowgate, dove il Kasbar è ancora aperto. Dio benedica ’sto buco infame, finalmente riesco a comprare delle sigarette… Regal, perché sono le uniche che tengono al banco e il distributore automatico naturalmente non funziona, ma non importa. Ho una sigaretta fra le labbra e una birra fra le mani (terapeutica, e comunque non credo che al Kasbar servano Perrier, ma, anche se lo facessero, finirebbe che qualche simpatico motociclista alto due metri e vestito di nero mi getterebbe un bicchiere in faccia giusto per principio, poi mi trascinerebbe urlante nei bagni degli uomini e m’infilerebbe la testa nel cesso, dove l’acqua non è stata tirata da tempo: no, no, non mi sto lamentando, fa tutto parte del colore locale di questo posto) e ora sono felice.

Me ne vado alle quattro; me la faccio tutta a piedi da Cowgate fino a Hunter Square dove il tetto in formelle di vetro dei gabinetti pubblici sotterranei — che arriva all’altezza della vita dei passanti — luccica di centinaia di minuscole tessere blu: una delle meraviglie della Lux Europae.

Scendo verso Fleshmarket Close, dimenticando che a quest’ora del mattino la stazione è ancora chiusa, e così devo svoltare per Waverley Bridge e per Princes Street passando sotto altre sculture astratte di luce e osservando incuriosito una macchina per la pulizia delle strade che, lentamente, spazza la via e prosciuga tutti i canaletti di scolo.

Arrivo a casa per le cinque, e alle undici vengo svegliato da una telefonata estremamente interessante che cambia i miei progetti per la giornata. E così vado al lavoro e devo anche pagare a Frank («Miltown of Towie»? Ti arrendi? «Milena oh Troia»!) le sue venti sterline perché i Tories l’hanno spuntata a malapena sul voto per Maastricht, con un margine minore di quanto pensassi. Cerco di telefonare a Neil per accertarmi di non essermi sognato la telefonata di questa notte, ma è fuori.

PONTE EXOCET

La macchina s’inerpica sulla stradina a una sola carreggiata che porta verso le basse colline; la luce dei fari crea una lunga galleria di luce tra le siepi. Indosso jeans neri, stivali neri, una polo blu scuro sopra una camicia blu e due maglie. Porto un paio di guanti di sottile pelle nera. Trovo un sentiero che si diparte dalla strada e conduce in un boschetto; proseguo con l’auto fin dove mi è possibile, poi spengo i fari. L’orologio sul cruscotto segna le tre e dieci. Aspetto un minuto. Non passa nessuno, sono quasi certo che nessuno mi abbia visto. Mi batte già forte il cuore.

Quando scendo dalla macchina, la notte è fredda. C’è una mezza luna, ma a tratti viene completamente oscurata da banchi di nuvole basse che si muovono veloci, lasciando cadere di quando in quando scrosci di pioggia ghiacciata. Il vento soffia forte tra i rami nudi degli alberi. Ripercorro il sentiero in direzione della strada e mi volto a guardare l’auto: è quasi completamente nascosta. Attraverso la striscia di asfalto, scavalco la staccionata, poi prendo il passamontagna dalla tasca dei calzoni e me lo tiro giù sul viso. Seguo la siepe che costeggia la strada, abbassandomi di colpo quando un’auto passa veloce lungo la strada; i fari spazzano la siepe sopra la mia testa. La macchina prosegue nella notte. Riprendo a respirare.

Arrivo alla staccionata in pendenza e la seguo, inciampando contro le pietre e i massi ai bordi del campo. I miei occhi non si sono ancora abituati all’oscurità. Il terreno è abbastanza solido, non troppo fangoso.

Arrivato alla siepe che delimita la parte bassa del campo, perdo un minuto buono a cercare un varco. Alla fine sono costretto a strisciarvi sotto, e la polo rimane impigliata. Ci sono alcuni alberi: non riesco a vederli, ma ne avverto la presenza a causa dei fischi e degli scricchiolii prodotti dal vento che soffia tra i loro rami.

Scendo slittando un argine fangoso e coperto di foglie, e attraverso un rigagnolo gelato; l’acqua mi entra in uno stivale. «Merda!» mormoro, poi, sempre sguazzando nel fango, risalgo l’altro argine, attaccandomi ai rami freddi dei cespugli e alle radici viscide degli alberi. Mi faccio strada scostando alcuni rami dei cespugli che crescono lungo il ruscello. Vedo le luci della strada davanti a me e le forme geometriche delle case buie. Sempre semiaccucciato in mezzo ai cespugli bassi, mi muovo diagonalmente nella boscaglia, verso la proprietà. Inciampo in un tronco e cado, ma senza farmi male. Arrivo al muro di mattoni alto un paio di metri che circonda il complesso e lo seguo a tastoni, incespicando in cumuli di terra e in calcinacci, finché non arrivo all’angolo.

Conto sessanta passi lungo il muro, poi lo abbandono per dirigermi verso l’albero più vicino. In quel momento, le nuvole si diradano e devo aspettare cinque minuti perché tornino a ricoprire la luna. Quindi mi arrampico sull’albero. Salgo quel tanto che basta per vedere la casa e identificarla grazie alla sua posizione e ai mobili da giardino, scendo, raggiungo il muro e mi tiro su. Rimango lì un attimo, con le mani che tremano e il cuore che batte all’impazzata. Osservo la casa buia davanti a me e la barriera di alti cespugli e di alberelli che la separano su entrambi i lati dalle altre ville.

La luna minaccia di scoprirsi di nuovo; sono costretto a saltar giù velocemente sul patio lastricato. Di fianco alla serra c’è un muretto che arriva a circa un metro dalla cima del muro di recinzione dell’intero complesso; ecco la mia via di fuga. Sulla casa, nel muro, ci sono luci di sicurezza dotate di sensori a infrarossi; se m’individuano, dovrò rinunciare: scavalcherò il muro, e scapperò per il bosco.

Attraverso silenzioso il patio e poi il prato, in direzione della casa; mi aspetto da un momento all’altro il bagliore delle lampade di sicurezza, che però restano spente. Arrivo nella zona in cui si trovano i mobili da giardino, vicino alla piscina coperta da un telo, e mi accuccio di fianco alla spettrale sagoma traforata della panca di metallo. Cerco la sporgenza in cui lo schienale della panchetta si congiunge al bracciolo, e i guanti di pelle restano impigliati nella superficie scabra della saldatura. Non ho abbastanza sensibilità. Mi tolgo un guanto e cerco meglio: il metallo è freddo e aguzzo contro la pelle. Trovo lo stucco: la chiave è infilata lì dentro. Con la punta delle dita sento il pezzettino di spago cui è attaccata, lo afferro e tiro piano. La chiave scivola fuori, tintinnando leggermente contro la panca. Mi rimetto il guanto.

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