Scuoto la testa. «No, proprio no», sospiro, alzando gli occhi al soffitto. «Non ce la faccio proprio.»
«Cosa?» dice Al, aggrottando la fronte.
«Non ce la faccio a reggere tutto questo. Oggi è stata…»
«Hai un aspetto di merda, Cameron», m’interrompe Al. Indica un punto alle mie spalle. «Guarda, ci sono due posti liberi, laggiù. Andiamo a sederci.»
«D’accordo. Prendiamo anche delle sigarette, eh?»
«No! Tu hai smesso, ricordi?»
«Sì, Al, ma è stata una giornata difficile e…»
«Tu va’ a sederti, d’accordo?»
Dimentico l’impermeabile. Lo prende Al. Ci sediamo in fondo a una delle panchette semicircolari di pelle verde, posando le birre sul tavolo ovale.
«Davvero ho un aspetto di merda?»
«Cameron, sembri proprio trombato.»
«Vaffanculo! Bell’amico che sei…»
«Dico le cose come le vedo.»
«Ho avuto una giornata traumatica», spiego, stringendomi addosso il mio Drizabone. «Sono stato torchiato dalla polizia.»
«Dolore!»
«Grazie per essere venuto a bere con me, Al», dico, guardandolo negli occhi con la sincerità degli ubriachi e dandogli un leggero pugno su un braccio.
«Ahia! Vuoi smetterla?» Si massaggia il braccio. «E, comunque, non mi preoccuperei troppo.»
«Hai per caso una sigaretta?»
«No, te l’ho già detto.»
«Be’, pazienza. Però ti ringrazio tanto per essere venuto a bere con me, davvero, Al. Sei l’unico amico mio che non sia un giornalista di merda… Be’, a parte Andy… E… be’, niente. Sai, mi ha fatto proprio piacere poterti raccontare tutte ’ste cose.»
«Raccontarle a me e al resto del bar, se non avessi continuato a dirti di stare zitto.»
«Sì, ma non crederesti mai dove stanno cercando di arrivare. Insomma, non crederesti che cosa stanno cercando di appiccicarmi addosso.»
«Un distintivo che dice NON FATEMI BERE, magari?»
Liquido la battuta con un gesto della mano e gli vado più vicino. «Parlo sul serio. Sono convinti che abbia ucciso delle persone!»
Al sospira. «Cameron, tu possiedi davvero il dono dell’iperbole drammatica.»
«Ma è vero!»
«No…» ribatte Al, calmo. «Se fosse vero, non ti avrebbero lasciato andare, Cameron. Saresti rinchiuso in una cella, dietro le sbarre, e non saresti qui a cercare di prosciugare il locale.»
«Ma io non ho un alibi!» gli sussurro, agitatissimo. «Non ho uno straccio di alibi! Qualche stronzo sta cercando d’incastrarmi! Non sto scherzando: stanno cercando d’incastrarmi! Mi chiamano al telefono e mi dicono di andare in un posto solitario ad aspettare istruzioni a un telefono pubblico, oppure mi chiedono di rimanere in casa tutta la sera, e nel frattempo loro fanno fuori qualche stronzo! Sì, insomma, tutti quei bastardi meritavano di morire… Anche se, in realtà, non li hanno uccisi proprio tutti: alcuni hanno subito soltanto ‘gravi aggressioni’, qualsiasi cosa significhi, non me l’hanno voluto dire… Però non sono stato io ! E la polizia è come impazzita, amico! Pensano che abbia avuto tempo a sufficienza per andare all’aeroporto, volare giù a sud, o dove diavolo hanno ucciso ’sti Tories del cazzo. Cristo, mi hanno pure confiscato il computer nuovo! Il mio laptop! Maledetti bastardi! Mi hanno detto di tenerli informati dei miei movimenti, roba da non crederci! Se vado da qualche parte devo avvertire la polizia locale. Che faccia! Ho cercato di chiamare qualcuno dei poliziotti che conosco, gente che sta in alto, per scoprire se ne sapevano qualcosa, ma erano tutti in riunione. Non ci credo.» Lancio un’occhiata all’orologio. «Devo tornare a casa, Al; devo gettare tutta la roba nel cesso, o mangiarmela, insomma farne qualcosa…» Bevo ancora qualche sorso di birra, e me ne rovescio un po’ sul mento. «Stanno cercando d’incastrarmi, non sto scherzando; c’è un bastardo che continua a telefonarmi. Dice di chiamarsi…»
«Signor Archer», completa Al con un sospiro.
Lo guardo con gli occhi sgranati. Non è possibile. «Come fai a saperlo?» dico con voce stridula.
«Perché è la quinta volta che ne parli.»
«Merda.» Ci rifletto sopra. «Credi che sia ubriaco?»
«Oh, sta’ zitto e bevi quella birra.»
«Buona idea… Hai mica una sigaretta?»
È passata un’ora. Al mi ha fatto restituire il pacchetto di sigarette che avevo appena comprato, mi ha tolto un cigarillo dalle labbra proprio mentre stavo per accendermelo, mi ha portato in un Burger King, costringendomi a mangiare un cheeseburger e a bere un bicchiere grande di latte, e ora mi sembra di essere un po’ più sobrio, se si esclude il fatto che ho perso del tutto il senso dell’equilibrio e ho seri problemi a stare dritto. Al è costretto ad aiutarmi e insiste per prendere un taxi — si rifiuta di guidare o di lasciar guidare me — e allora gli rinfaccio che ha paura per via di tutte le volte che l’hanno beccato al volante mentre era sbronzo.
«Sai che ti dico? Io me ne vado su in collina», gli dico, mentre usciamo all’aria fresca.
«Saggia idea», approva Al. «Con me ha sempre funzionato.»
«Già», dico, annuendo con enfasi e alzando gli occhi a guardare il cielo. È il tramonto e l’aria è fredda. Ci dirigiamo a ovest, verso Princes Street. «Me ne vado in collina, lontano dalla città», ribadisco. «Prima faccio sparire tutta la roba nel mio appartamento, e poi via. Me ne vado. Sai, ho deciso che dirò alla polizia esattamente dove sono diretto, così potranno rendersi conto che non sono io, ’sto fottuto serial killer o serial maniaco o quel che diavolo è. Sono proprio scosso, sai, non ho problemi ad ammetterlo. Io me ne vado nelle Highlands, a Stromeferry-noferry.»
«Dove?» Mentre svoltiamo in St. Andrew Street, Al si abbottona il cappotto per proteggersi dalle folate di vento che arrivano da St. Andrew Square.
«A Stromeferry-noferry.»
«Ah!» Al scoppia a ridere. «Certo, Stromeferry-noferry. L’ho visto anch’io, quel cartello.»
Dopo avermi puntellato contro il muro, entra in un negozio a comprare dei fiori.
«Prendi anche un pacchetto di Rothmans, Al!» gli grido, ma non credo che mi abbia sentito. Rimango lì a sospirare e a sorridere coraggiosamente ai passanti.
Al ricompare con un mazzo di fiori.
Allargo le braccia. «Al, non dovevi disturbarti!»
«Bene, perché non sono per te.» Mi prende per un braccio e ci dirigiamo verso il bordo del marciapiede, in cerca di un taxi. Annusa i fiori. «Sono per Andy.»
«Per Andy?» ripeto, sorpreso. «Va bene, allora li prendo io.» Allungo una mano per afferrare il mazzo, ma lo manco.
Al mi dà un colpetto nelle costole. «Non quell’Andy», dice, facendo segno a un taxi con la luce accesa. Ci passa davanti con un rumore di ferraglia e non si ferma. «Sono per mia moglie, buffone, non per quel dissoluto, per quella vittima del boom degli anni ’80 che ora vive come un eremita depresso, lassù nella sua triste casa.»
«Albergo», lo correggo, e lo aiuto a fare segnali a un altro taxi. Scendo barcollando giù dal marciapiede, rischiando di cadere, ma Al mi salva. Il taxi — che stava già rallentando e puntando verso di noi — sterza e riprende velocità. Lo guardo con odio. «Bastardo!»
«Idiota», fa Al. Mi prende per un braccio e fa per accompagnarmi sull’altro lato della strada. «Su, vieni, ne prenderemo uno alla stazione di Hanover Street.»
«Ma… la mia macchina?»
«Scordatela. La prenderai domani.»
«Sì, la prendo domani e poi, sai che ti dico, me ne vado in collina.»
«Buona idea.»
«Me ne vado in collina, ho deciso…»
«Bravo.»
«…in collina, amico…»
Arriviamo a casa mia e Al mi accompagna alla porta; gli dico che sto bene e lui se ne va. Getto tutta la roba nel gabinetto, tranne un po’ di polverina che prima sniffo e poi succhio sul momento. Quindi me ne vado a letto, ma non riesco a dormire. Suona il telefono. Rispondo.
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