Iain Banks - Complicità

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Cameron, reporter del Caledonian e maniaco di computer game, si mette sulle tracce di un nemico crudele, un uomo solo che si erge a giudice, giuria e boia di tutti coloro che hanno commesso un errore troppo grave per essere perdonato. Quale oscura complicità lega Cameron all’inafferrabile serial-killer?

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«Credi che il nostro caro Mr Major riuscirà a farla franca con il voto di Maastricht?» mi chiede Frank, mentre la sua faccia rubizza fa capolino da dietro il mio schermo, come la luna da dietro una collina.

«Probabile», ribatto. «I suoi membri dell’assemblea sono una manica di smidollati leccaculo e, anche se ci fosse un qualche pericolo, quegli stronzi dei liberal-democratici salveranno il culo ai Tories, come al solito.»

«Ti andrebbe di fare una scommessina?» chiede Frank, strizzando un occhio.

«Sul risultato?»

«Sul margine della maggioranza dello zio John.»

«Venti sterline che il margine sarà di due cifre.»

Frank riflette. Poi annuisce. «Va bene.»

Sono tornato a occuparmi dei problemi dell’industria navale, e ho intervistato alcune persone ai cantieri Rosyth, che potrebbero essere chiusi entro breve, lasciando così altri seimila lavoratori sulla strada. Molto dipende dal fatto che riescano ad aggiudicarsi il contratto di manutenzione per i sottomarini Trident.

Ho già scritto un centinaio di parole, quando squilla il telefono.

«Pronto. Parla Cameron Colley.»

«Cameron, oh, Cameron, grazie al cielo ci sei! Ero sicura di aver sbagliato di nuovo a calcolare il fuso; ne ero proprio convinta, davvero. Cameron, è assurdo, davvero, non ce la faccio proprio più. Non riesco neppure a parlargli. È impossibile. Non so perché l’ho sposato, proprio non lo so. È pazzo, è pazzo sul serio. La cosa potrebbe anche non interessarmi più di tanto, ma sta facendo ammattire anche me. Vorrei che tu gli parlassi, che gli dicessi qualcosa, davvero. Sono sicura che non ascolterebbe neppure te, però… Be’, forse potrebbe anche ascoltarti.»

«Ciao, mamma», faccio io, con voce stanca, e m’infilo una mano in tasca, dove dovrebbe trovarsi il pacchetto di sigarette.

«Cameron, che devo fare? Dimmelo tu. Dimmi cosa deve fare una poveretta con un uomo così impossibile. Giuro che sta peggiorando di giorno in giorno, davvero. Vorrei tanto che fosse una mia fissazione, ma purtroppo non lo è, giuro che non lo è. Sta peggiorando, davvero. Non sono io, è lui. Anche i miei amici mi danno ragione. Sarà…»

«Qual è il problema, mamma?» Prendo una matita posata sulla scrivania e comincio a rosicchiarla.

«Quello stupido di mio marito! Mi ascolti oppure no?»

«Sì, ma cosa…?»

«Vuole comprare una fattoria! Una fattoria! Alla sua età!»

«Cosa, un allevamento di pecore?» chiedo, visto che sta telefonando dalla Nuova Zelanda e mi sembra di capire che laggiù le pecore abbondino.

«No! Di angora… Capre o conigli, o quale che sia l’animale da cui si ricava quella roba. Cameron, la situazione sta diventando insostenibile. Lo so che non è il tuo vero padre, ma mi pare che andiate d’accordo e forse ti starà a sentire. Senti, tesoro, non potresti fare un salto qui e cercare di convincerlo a ragionare?»

«Fare un salto lì? Santo cielo, mamma, è…»

«Cameron! Mi sta facendo uscire matta!»

«Senti, mamma, cerca di calmarti…»

Comincia così l’ennesima maratona telefonica di mia madre: come al solito si lamenta — e lo fa con estrema dovizia di particolari — di una qualche nuova, paventata avventura commerciale del mio patrigno, avventura destinata, secondo lei, a ridurli sul lastrico. Bill, il mio patrigno, è un neozelandese forte e robusto, tranquillo e spiritoso, che prima vendeva macchine usate e ora è in pensione. Mia madre l’ha conosciuto tre anni fa, durante una crociera nei Caraibi. Un anno dopo è andata a vivere in Nuova Zelanda. Grazie alla pensione e agli investimenti di Bill, se la passano molto bene, ma ogni tanto a lui viene voglia di rimettersi in affari. Queste idee non si concretizzano mai, e di solito non si tratta neppure di proposte commerciali serie; capita che Bill dica qualcosa di assolutamente innocuo, tipo: «Oh, guarda, a Auckland c’è un fast-food in franchising in vendita per cinquantamila», e, immediatamente, mia madre dà per scontato che lui intenda comprarlo e rovinarsi.

Lei continua a cianciare, mentre io scorro lentamente sul terminale i dispacci della Reuters e della Press Association per vedere cosa sta succedendo nel mondo. È una tipica reazione da giornalista, piuttosto istintiva e pienamente compatibile con i ben cadenzati «hmm» e «ahh» da bravo figlio che emetto a giusti intervalli durante il suo monologo.

Alla fine riesco a chiudere la telefonata, non prima di averla convinta che Bill non getterà tutti i loro risparmi in una qualche fattoria diroccata e che — come al solito — la soluzione sta nel parlarne con lui. Le prometto di andare a trovarli, probabilmente l’anno prossimo. Dopo qualche tentativo di salutarla — mia madre è una di quelle persone che ti fanno gli auguri, ti salutano, ti ringraziano per averle chiamate o per esserti fatto trovare quando ti hanno chiamato, ti ridicono addio e poi, improvvisamente, si lanciano in un nuovo argomento —, riesco finalmente a dirle l’ultimo «ciao» e a concludere la telefonata senza riattaccarle in faccia. Mi appoggio alla spalliera della sedia, esausto.

«Mi sembra di capire che era mammina, vero?» dice Frank, tutto gioviale, dall’altra parte del monitor.

Prima ancora che possa rispondere, il telefono squilla di nuovo. Sussulto e afferro il ricevitore, tremando all’idea che sia di nuovo lei, che abbia dimenticato di dirmi qualcosa.

«Sì?» esordisco in tono stridulo.

«Salve, questa è la voce della civiltà», risponde un’armoniosa voce dall’accento inglese.

«Come?»

«Cameron, sono Neil. Volevi parlarmi?»

«Oh, ciao, Neil.» Neil è un mio ex collega che si è trasferito a Londra per lavorare in Fleet Street quando Fleet Street non era ancora piena di banche giapponesi. Suo padre lavorava nei Servizi segreti durante la guerra di Corea, e in quel periodo ha conosciuto Sir Andrew (il nostro direttore che si sta riprendendo dall’infarto). Neil è tradizionalista fino al midollo, ma ciò non toglie che sia anche simpatico; fuma oppio e adora la Famiglia Reale, disprezza il socialismo e la Thatcher in eguai misura, e vota liberale perché la sua famiglia l’ha sempre fatto, sin dai tempi in cui i liberali si chiamavano Whigs. Va a caccia di cervi e a pesca di salmoni. Ogni anno va a sciare a Saint Moritz. Guida una Bentley S2. Il termine raffinato sembra essere stato coniato espressamente per lui. Adesso lavora, come free-lance, in un settore piuttosto vicino a quello dello spionaggio industriale, talvolta per qualche quotidiano, ma principalmente per società e industrie. «Come stai?» dico, guardando il monitor e aggrottando la fronte. Proprio in quel momento, Frank si alza e, ficcandosi la biro tra i denti, si allontana.

«Sto bene e sono molto occupato», ribatte Neil con la sua parlata un po’ strascicata. «Cosa posso fare per te?»

«Puoi dirmi che cos’hai scoperto a proposito di quei cinque tizi che sono passati a miglior vita in circostanze molto sospette fra l’86 e l’88. Sai, quei tipi che avevano tutti a che fare con Sellascale, Winfield o Atomiclandia o come diavolo si chiama adesso.»

C’è un attimo di pausa. «Ah», fa Neil e sento che si accende una sigaretta. Mi viene l’acquolina in bocca. Fortunato bastardo. «Quella vecchia questione.»

«Già», confermo, appoggiando i piedi sulla scrivania. «Quella vecchia questione che sembra un romanzo di spionaggio e per la quale nessuno ha mai trovato una spiegazione decente.»

«Non c’è niente da spiegare, intelligentone», dice lui con un sospiro. «Solo uno sfortunato susseguirsi di circostanze.»

«Suona tanto come una Poco Attendibile Lunga e Lacunosa Affermazione, no?»

Neil ride, probabilmente ripensando al codice di acronimi che avevamo ideato nell’anno in cui ci eravamo trovati a lavorare insieme. «No, è una Vera E Reale Inconfutabile Tesi… maledizione, qual era l’ultima parola?»

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