Iain Banks - Complicità

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Cameron, reporter del Caledonian e maniaco di computer game, si mette sulle tracce di un nemico crudele, un uomo solo che si erge a giudice, giuria e boia di tutti coloro che hanno commesso un errore troppo grave per essere perdonato. Quale oscura complicità lega Cameron all’inafferrabile serial-killer?

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La faccenda era estremamente sospetta; per quanto ne sapevo, alcuni giornalisti — di almeno due quotidiani londinesi — avevano cercato di scoprire se si era trattato di qualcosa di più di una serie di coincidenze, ma senza risultato. C’era stata un’interpellanza parlamentare e la polizia aveva prima avviato un’indagine e poi l’aveva insabbiata in fretta e furia; da tale indagine, comunque, non era emerso un bel niente, oppure, se qualcosa era emerso, era stato tenuto ben nascosto.

A detta del signor Archer, i cinque morti avevano una cosa in comune: il segno di un’iniezione su un braccio e/o una contusione nella parte posteriore del cranio, dov’erano stati colpiti. Di conseguenza, nessuno di essi era cosciente al momento del suicidio. Il signor Archer sosteneva inoltre di essere in possesso di copie dei rapporti forensi originali che avvaloravano le sue affermazioni, ma io — come altri miei colleghi — avevo controllato presso i distretti di polizia e con i vari coroner e non avevo scoperto niente; inoltre il fatto che l’anziano medico della Cumbria che aveva effettuato le autopsie su Isaacs, Wood e Harrison fosse morto d’infarto poco dopo l’avvio delle indagini poteva essere un’ennesima coincidenza oppure no… Comunque pure questo era impossibile da dimostrare, soprattutto perché il suo corpo, al pari degli altri cinque, era stato cremato.

Scuoto la testa, perplesso davanti a questa teoria della congiura, e mi sto chiedendo se la sensazione di fastidio che provo proprio dietro agli occhi sia l’inizio di un mal di testa, quando squilla il telefono della biblioteca. Joanie mi chiama; è per me.

«Cameron?» È Frank.

«Sì», rispondo, a denti stretti. Sarà meglio per lui che non si tratti di un altro giochetto sul controllo ortografico.

«C’è il tuo signor Archer al telefono. Devo passartelo?»

Oh, oh. «Ah, perché no?»

Si sentono parecchi clic (e penso: Merda, non posso registrare neanche questa telefonata ) e poi la voce alla Stephen Hawking dice: «Signor Colley?»

«Sì, signor Archer.»

«Ho qualcos’altro per lei.»

«Che cosa?»

«Il vero nome di Jemmel mi sfugge, però conosco il nome dell’agente, il rappresentante del cliente finale.»

«Ah.»

«Si chiama Smout», mi rivela; quindi lo sillaba.

«Okay», faccio io, pensando che il nome suona vagamente familiare. «E…?»

«È uno di quelli di cui non si parla a Baghdad, ma…»

Ma la linea cade. Si sentono un paio di clic , una serie di rumori lontani analoghi ai suoni di un telefono a toni e una vaga eco, appena udibile: «…non si parla a Baghdad, ma…»

Riattacco. Provo un leggero senso di vertigine; la testa ancora gira a causa dell’alcool bevuto a pranzo, l’uccello brucia per le due seghe violente e frustranti e la mente macina le implicazioni di ciò che il signor Archer mi ha appena detto, per non parlare del forte sospetto che (anche se io non ho potuto farlo) qualcuno, da qualche parte, abbia registrato la telefonata.

Il fatto è che so chi è Smout: ho scritto un articolo su di lui. L’ostaggio dimenticato, l’uomo di cui — come ha detto il signor Archer — non si parla.

Daniel Smout è — o era — un trafficante d’armi di media levatura che ha passato gli ultimi cinque anni in prigione a Baghdad, accusato prima di spionaggio e poi incarcerato per traffico di droga. È stato condannato a morte, ma la sentenza è stata commutata in ergastolo. Il governo di Sua Maestà ha sempre dimostrato una certa riluttanza ad avere a che fare con lui; l’ultima visita di un diplomatico risale a tre anni or sono. Voci insistenti, però, lo identificano come un agente occidentale coinvolto in qualcosa di così segreto da costringere tutte le persone implicate ad agire in modo che i giornalisti (e chiunque altro, del resto) ne fossero tenuti all’oscuro; il motivo per cui è stato sbattuto dentro, quindi, è impedirgli di parlare, soprattutto dopo il fallimento dell’operazione alla quale stava lavorando.

Riassumendo: stiamo parlando di un progetto il cui nome in codice è quello del dio greco della guerra; di un progetto che coinvolge l’Iraq, un accordo molto, molto segreto, cinque uomini morti — dei quali almeno tre avevano accesso a informazioni di carattere estremamente riservato sull’industria nucleare e due addirittura al prodotto concreto di tale industria (cioè il plutonio) — e un luogo in cui si è riusciti a smarrire tanto di quel materiale bellico da far impallidire anche i più folli sogni di acquisizione di un dittatore di medio livello che vive nel Terzo Mondo e coltiva ambizioni nucleari.

La British Nuclear Fuels Ltd., il quartier generale per le Comunicazioni governative, l’Ente per il controllo nucleare, il ministero del Commercio e dell’Industria e un agente — il rappresentante del cliente finale, come lo ha definito il signor Archer — tutti a Baghdad.

Oh, porca merda!

Metto il naso in redazione giusto per far vedere la mia faccia ma, come arrivo alla scrivania, squilla il telefono. Ho un sussulto e lo afferro: è di nuovo il signor Archer. Questa volta riesco a far partire il registratore.

«Signor Colley, non posso parlare adesso. Se posso chiamarla a casa venerdì sera, spero di poterle dare qualcosa di più.»

«Come?» sbotto, passandomi una mano tra i capelli. A casa? Questa è una procedura nuova. «Va bene. Il mio numero è…»

«Conosco il suo numero. Arrivederci.»

«…Arrivederci», dico al ricevitore ormai silenzioso.

«Tutto bene?» chiede Frank, corrugando la fronte.

«Sì», rispondo, facendogli un gran sorriso, probabilmente poco convincente. «Benissimo.»

Mi ritiro di nuovo in bagno, dando la colpa a qualcosa che era nella zuppa di molluschi che ho mangiato a pranzo, e sniffo un po’ di anfe, poi faccio una passeggiata fino ai Salisbury Crags, mi siedo su un masso e rimango a guardare la città, fumandomi uno spinello e pensando: Oh, signor Archer, in che casino siamo finiti?

INIEZIONE

«7970.»

«Sì… pronto?»

«Andy, sei tu?»

«Eh? Sì. Chi parla?» La voce è lenta, assonnata.

«Come sarebbe a dire, chi parla? Sei tu che mi hai chiamato. Sono Cameron. Ti ho lasciato un messaggio sulla segreteria telefonica neanche dieci minuti fa.»

«Cameron…»

«Andy! Che diamine, sono io, Cameron, il tuo amico d’infanzia, il tuo migliore amico. Ti ricordi di me? Ehi, sveglia!» Non riesco a capire perché Andy è così addormentato. D’accordo che è mezzanotte, però Andy non è mai andato a letto prima delle due.

«…Ah, sì, Cameron. Mi sembrava di riconoscere quel numero. Come stai?»

«Bene, e tu?»

«Oh, be’, io… io… sì, sto bene. Sto bene.»

«Mi sembri fatto.»

«Be’, sai…»

«Senti, se è troppo tardi, ti richiamo in un altro momento…»

«No, no, va benissimo.»

Sono seduto nello studiolo dell’appartamento, la TV è accesa, ma ho tolto l’audio; anche il computer è acceso e sul monitor c’è la schermata riepilogativa di Despot. È venerdì notte, e dovrei essere fuori a divertirmi, però sto aspettando la telefonata del signor Archer, e poi ho paura che, se faccio qualcosa di troppo gradevole, mi venga voglia di una sigaretta, perciò questa è un’altra buona ragione per rimanere a casa a guardare la TV e a giocare al computer. Ma poi ho cominciato a pensare ad Ares, a quei cinque morti e a quell’altro che sta marcendo in una cella a Baghdad e di colpo ho pensato: Cameron, tu hai in mano qualcosa che sembra uscito dalla penna di Pearl Frotwithe , mi sono spaventato e mi è venuta voglia di sentire una voce amica. Così ho chiamato Andy. Gli dovevo una telefonata da tempo, e non c’eravamo più visti da quel fine settimana dell’estate scorsa, ma ha risposto la segreteria; lui è lassù in quell’albergo buio, a soli duecento chilometri di distanza, però la voce giunge debole e lontana. Mi sembra quasi di sentirla riecheggiare nei grandi saloni vuoti di quell’edificio freddo e silenzioso.

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