Iain Banks - Complicità

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Cameron, reporter del Caledonian e maniaco di computer game, si mette sulle tracce di un nemico crudele, un uomo solo che si erge a giudice, giuria e boia di tutti coloro che hanno commesso un errore troppo grave per essere perdonato. Quale oscura complicità lega Cameron all’inafferrabile serial-killer?

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Non hai riabbassato il fondo del passamontagna: desideri che veda la tua bocca. Gli vai molto vicino, in modo che possa guardarti soltanto con l’occhio sinistro e, sopra i sempre più deboli e rochi latrati provenienti dal recinto di fronte, gli dici: «A Teheran, nel cimitero principale, c’era una fontana rossa, una fontana di sangue in memoria dei martiri della guerra». Lo fissi e senti che tenta di dire o di urlare qualcosa, ma i rumori che gli escono dal naso sembrano lontani e soffocati. Forse sta imprecando contro di te o magari ti sta implorando, non lo capisci. «Nell’ultima fase della guerra, coloro che venivano dichiarati colpevoli di reati capitali non erano fucilati o impiccati», prosegui. «Erano obbligati a dare il loro contributo allo sforzo bellico.»

Alzi il coltello in modo che lo possa vedere. Non potrebbe spalancare gli occhi più di così.

«Li hanno dissanguati», gli spieghi.

Ti accucci di fronte a lui e gli pratichi una profonda incisione nella coscia sinistra, recidendo l’arteria. L’urlo gli esce dal naso; lui continua a scuotere la griglia. Il sangue esce con violenza, schizzando sui tuoi guanti e zampillando verso l’alto in una luccicante fontanella rosa che gli inzuppa le mutande e gli arriva persino sulla faccia, coprendola di lentiggini rossastre. Cambi la presa sul manico del coltello per incidergli l’altra gamba. Lui continua a scrollare il cancelletto, per quel che serve, ma i legacci tengono e il cancelletto non può scivolare in avanti perché ti ci sei accucciato di fronte, e lo tieni bloccato con gli stivali. Il sangue sgorga con violenza, scintillante sotto la luce dei neon. Gli corre giù per le gambe, gli scende fino ai calzoni arrotolati intorno alle caviglie e li inzuppa.

Ti alzi, allunghi una mano, prendi il fazzoletto perfettamente piegato che gli spunta dal taschino, lo apri con un solo gesto e asciughi la lama del Marttiini finché il coltello non è perfettamente pulito. Viene dalla Finlandia: ecco perché il suo nome si scrive in modo così strano. Non ci avevi mai pensato prima, però ora la sua nazionalità ti sembra particolarmente divertente, anche se in modo un poco macabro: hai finito il signor Persimmon con un coltello finnico.

Ora il sangue esce più lentamente. Lui ha ancora gli occhi spalancati, ma lo sguardo è vitreo. Ha smesso di divincolarsi, si è afflosciato, anche se respira forte. Hai l’impressione che stia piangendo, ma forse è solo l’effetto del sudore sulla faccia ormai terrea.

Sei sinceramente dispiaciuto per lui perché adesso è soltanto un uomo che sta morendo, come tanti altri; ti stringi nelle spalle e gli dici: «Su, avrebbe potuto andar peggio».

Poi ti giri, fai su la tua roba e lo lasci lì, con il sangue che esce a goccia a goccia, e la pelle che si è fatta cerea sotto l’abbronzatura.

Parte del suo sangue si è raccolto in una pozza sul cemento davanti a lui, e va a unirsi a quello che sta lentamente colando fuori della gabbia piena di cani morti o straziati.

Spegni le luci e, mentre apri la porta, tieni la Browning alzata contro la spalla; prima di uscire, controlli l’esterno con il visore notturno.

Ho voglia di piangere. Sono con Y, però lei si è portata dietro il marito. Sono venuti insieme al giornale ma, quando l’addetto alla reception mi ha chiamato, ha detto solo che lei mi stava aspettando e così sono corso per le scale come un ragazzino tutto eccitato per una promessa che sta per essere mantenuta; poi, quando me li sono visti davanti tutti e due, intenti a osservare le foto nella bacheca che espone i più recenti lavori dei nostri fotografi, sarei sprofondato. Yvonne, alta, magra, muscolosa ma slanciata, in gonna e giacca scura, camicia di seta. Capelli neri cortissimi, che lasciano scoperta la nuca in un nuovo taglio, ancora più severo del precedente, con un ciuffo sulla fronte. Lei si è voltata verso di me proprio mentre la mia faccia si allungava per la delusione e mi ha rivolto un sorriso contrito.

Anche William si è voltato; spalle larghe, una bella faccia che, quando mi vede, si apre in un gran sorriso. William, biondo quanto Yvonne è nera, fisico da campione olimpionico di canottaggio, dentatura perfetta, una stretta di mano da gorilla.

«Cameron! Che piacere! Quanto tempo che non ci vediamo! Come stai, tutto bene?»

«Bene, bene», ho risposto, rivolgendogli un sorriso il più sincero possibile e salutandolo con un cenno del capo. William è alto, oltre che grosso: mi sovrasta, e sì che io sono un po’ più di uno e ottanta. Yvonne posa le mani sulle mie spalle e mi bacia su una guancia; con i tacchi, è alta quasi quanto me. I tacchi. Lei preferisce le scarpe basse e si mette quelle con i tacchi alti soltanto perché così il suo sedere è all’altezza giusta quando la prendo da dietro. Quando le sue labbra mi sfiorano la guancia, sento il suo profumo: Cinnabar, il mio preferito. Ci siamo scambiati qualche convenevole e intanto pensavo: … e io che mi sono pure preso il pomeriggio libero.

«Bene», ha detto William, fregandosi le mani. «Dove andiamo?»

«Pensavo di fare un salto giù al Viva Mexico…» ho proposto (e per poco non aggiungevo «come al solito»), guardando mesto le labbra rosso acceso di Yvonne.

«Naa», ha replicato William con una smorfia. «Ho voglia di ostriche. Andiamo al Café Royal, che ne dici?»

«Hmm…» E pensavo: Ostriche…

«Offriamo noi», ha annunciato Yvonne, sorridendo e prendendo sottobraccio il marito.

Ho conosciuto Yvonne e William all’università, nel periodo d’oro dei nostri anni migliori, quelli passati a Stirling, quelli compresi esattamente fra la prima e la seconda vittoria della Thatcher.

Loro due frequentavano i corsi di economia. Lui veniva da Birmingham, anche se i suoi genitori sono scozzesi. Lei era di Bearsden, vicino a Glasgow. Si erano conosciuti durante la prima settimana e facevano ormai coppia fissa quando li conobbi per caso nel palazzetto dello sport, un sabato pomeriggio in cui William doveva giocare a rugby e Yvonne stava cercando un compagno per una partita a squash. Stavo aspettando da almeno mezz’ora il mio avversario — un ragazzo che frequentava con me il corso di tecniche della comunicazione — ed ero già pronto a dirigermi al bar, quando Yvonne mi propose di giocare insieme. Me le suonò. Da allora dobbiamo aver fatto almeno duecento partite, e sono riuscito a batterla esattamente sette volte, di solito se stava covando qualche malanno, o quando era ancora convalescente. Io do la colpa alla droga e al fatto che, a parte qualche seduta di sesso atletico con Yvonne di quando in quando, una partita a squash ogni due settimane è l’unica attività fisica che pratico.

Yvonne e io siamo rimasti semplici amici finché lei e William non si sono trasferiti a Edimburgo; tre anni fa, un giorno che William era lontano, avevamo un appuntamento per andare a vedere — ironia della sorte — Le relazioni pericolose. Ma non abbiamo neppure visto il cinema perché siamo finiti in un pub. Ci siamo ubriacati e, non so come, abbiamo cominciato a baciarci, poi, sul taxi che ci riportava a Cheyne Street, l’autista ci ha detto di darci una calmata perché stavamo praticamente scopando sul sedile posteriore. Abbiamo fatto neanche mezzo metro oltre la porta d’ingresso e lei aveva già le mutandine abbassate, io i calzoni calati, e l’abbiamo fatto in piedi contro il muro, lei con la testa appoggiata al contatore del gas, io con la schiena che mi si ghiacciava per lo spiffero freddo che entrava dalla buca per le lettere.

Adesso, di solito, riusciamo ad arrivare sino al letto, ma è comunque una relazione varia e interessante, e Yvonne giura che con me fa cose che non ha mai neppure menzionato a William, la cui unica perversione sembra essere quella di vedere la moglie in guêpière e reggicalze. Considerato che ha proprio l’aria di un ragazzo in gamba, è piuttosto deludente apprendere che ha una certa ritrosia per i pompini e un vero e proprio orrore — per quanto espresso in maniera gentile e contrita — all’idea di leccarla. E così, a quanto pare, questi (insieme al fare la lotta dopo esserci cosparsi di olio per bambini, al mangiare gelato dalla sua vulva, al fingere uno stupro o un atto di sodomia con tanto di variazioni bondage ) sono tutti piaceri riservati unicamente a me.

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