Iain Banks - Complicità

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Cameron, reporter del Caledonian e maniaco di computer game, si mette sulle tracce di un nemico crudele, un uomo solo che si erge a giudice, giuria e boia di tutti coloro che hanno commesso un errore troppo grave per essere perdonato. Quale oscura complicità lega Cameron all’inafferrabile serial-killer?

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«Assodata», gli rivelo, sorridendo. «Non abbiamo mai trovato niente di meglio.»

«Giusto. Be’, è proprio così.»

«Sul serio?» faccio, cercando di non ridere. «Tutti ’sti tizi che, guarda caso, erano collegati alla British Nuclear Fuels Ltd., al quartier generale per le Comunicazioni governative o ai Servizi segreti dell’esercito, sono morti così, di morte violenta, nel giro di venti mesi? Stai scherzando…»

«Cameron, mi rendo conto che il tuo animo menscevico vorrebbe tanto che ci fosse dietro una cospirazione fascista assolutamente irrazionale, ma la banale verità è che tale cospirazione non esiste. O, se esiste, è molto remota, troppo remota per essere opera di un qualsiasi Servizio segreto di mia conoscenza. Non c’è mai stato il minimo indizio attendibile che sia stato qualcuno dei nostri; quelli del Mossad — gli unici in grado di portare a termine un’azione così ben riuscita senza disseminare sulla scena del delitto impermeabili con dentro scritto il nome, il grado e il numero di matricola dell’agente — non avevano moventi plausibili; lo stesso dicasi dei nostri amici di Mosca, dato che, dopo la triste fine del loro Stato socialista, gli agenti dell’ex KGB stanno praticamente facendo a gomitate per autodenunciarsi e per confessare i loro peccati, e nessuno di loro ha mai accennato a quei cinque defunti figli della Cumbria e dintorni.»

«Sei, se contiamo anche il dottore che ha effettuato l’autopsia sui tre stoccafissi della Cumbria.»

«Sia come sia…» concede Neil con un sospiro.

Sto riflettendo. La decisione che mi accingo a prendere potrebbe essere molto importante. Devo parlare a Neil del signor Archer e di Daniel Smout? Oppure devo tenere le informazioni per me? Cristo, questa storia potrebbe rivelarsi la cosa più grossa dai tempi del Watergate; un complotto — se ho capito bene — che coinvolge tutto l’Occidente, o forse soltanto il governo di Sua Maestà, o perlomeno un gruppo di persone in grado di fornire armi nucleari al nostro ex alleato nella lotta contro i cattivi Mullah — e ora nemico pubblico numero uno — Saddam Hussein e ciò mentre la guerra Iran-Iraq si stava mettendo maluccio per lui.

«Sai», riprende Neil, con un altro sospiro, «ho la terribile sensazione che mi pentirò di avertelo chiesto, ma… Che cosa ti spinge a fare simili ricerche? A meno che, ovviamente, la triste notizia di queste cinque morti non sia giunta soltanto adesso in Caledonia…»

«Be’, vedi…» annaspo, giocherellando con il cavo del telefono.

«Allora?» dice Neil, con quel suo tono sul genere: «Perché mi stai facendo perdere tempo prezioso?»

«Ho ricevuto una telefonata da una persona che afferma di sapere com’è andata; sostiene anche che ci sono almeno altri due nomi coinvolti nella vicenda.»

«E chi sarebbero?»

«Fino a ora ne conosco soltanto uno.» Faccio un respiro profondo. Farò come il signor Archer, gli darò un pezzo per volta. «Smout», gli dico. «Daniel Smout. Il nostro uomo a Baghdad.»

Neil rimane in silenzio per qualche secondo. Poi sento che esala un profondo respiro. «Smout.» Pausa. «Capisco.» Altra pausa. «Quindi», prosegue, lentamente, come se stesse riflettendo, «se l’Iraq fosse coinvolto, non è impossibile che il Mossad potesse interessarsi alla faccenda. Anche se uno dei nostri suicidi era di fede semitica…»

«Anche Vanunu lo era.»

«Già. Hmm. Interessante. Ti rendi conto, però, che c’è la possibilità che il tuo informatore sia un mitomane?»

«Già, è possibile.»

«Fino a ora si è rivelato attendibile?»

«No. È una fonte nuova, per quanto ne so. Mi ha dato una serie di nomi, punto e basta. Potrebbe benissimo essere un mitomane. È molto probabile, anzi. Voglio dire, tu non lo penseresti? Pensi che lo sia?» Sto parlando a vanvera. Improvvisamente mi sento molto stupido e un po’ nervoso.

«Hai detto che c’era un sesto nome», scandisce Neil. «Qualche indizio?»

«Di lui ho quello che il mio amico definisce il nome in codice.»

«E cioè?»

«Be’…»

«Cameron, giuro che non ho intenzione di fregarti lo scoop, se è questo che ti preoccupa.»

«No, certo», rispondo. «Questo lo so. È solo che… potrebbe anche essere un buco nell’acqua.»

«È possibile, ma…»

«Senti, Neil, mi piacerebbe parlarne con qualcuno.»

«E cioè?»

«Qualcuno dell’ambiente, capisci.»

«Qualcuno dell’ambiente», ripete con voce piatta.

Cristo, come vorrei avere una sigaretta! «Sì», ribadisco. «Qualcuno dell’ambiente. Qualcuno che lavora nei Servizi segreti. Qualcuno che mi guardi negli occhi e mi dica che l’MI6 o chi altri non ha avuto niente a che fare con ’sta storia. Qualcuno con cui possa parlare liberamente.»

«Hmm.»

Lascio che ci rifletta un po’. Alla fine, Neil dice: «Be’, di sicuro c’è qualcuno con cui parlare. Senti, mi rivolgerò a qualche mio contatto, per vedere che reazione ha. Ma so già che chiunque, prima di essere coinvolto, vorrà sapere con chi sta trattando. Vorrà sapere il tuo nome».

«Lo immaginavo. Non c’è problema, puoi dirglielo.»

«Bene. Allora ti farò sapere qual è stata la reazione, d’accordo?»

«D’accordo.»

«A dirti la verità, farebbe piacere anche a me interessarmene, sempre supponendo di non avere a che fare con un mitomane.»

«Okay», dico, scrutando il monitor e cercando di sbirciare oltre la libreria. A chi posso scroccare una sigaretta? mi domando. «Be’, sei molto gentile, Neil. Ti ringrazio molto.»

«Figurati. Senti, quand’è che vieni in città? Non è che voi Picti dovete chiedere un permesso di viaggio per muovervi, o qualcosa di simile?»

Arrivi a casa del signor Oliver, a Leyton, alle nove, come hai concordato con lui nel pomeriggio, durante l’incontro nel suo negozio di Soho. Ha avuto tutto il tempo di rientrare, di far cena, di guardare una delle sue soap opera preferite e di farsi una doccia. Il suo appartamento si trova al primo piano di un edificio in un gruppo di case a schiera in mattoni; al pianterreno c’è una fila di negozi, di ristoranti e di uffici. Premi il pulsante del citofono.

«Sì?»

«Signor Oliver? Sono Mellin. Si ricorda di me, questo pomeriggio?»

«Ah, sì. Venga.» La serratura scatta con un ronzio.

Dentro, oltre il pesante portone munito di una robusta serratura, l’atrio è coperto da una folta moquette e le pareti sono tappezzate con una carta in stile Regency dall’aspetto costoso. Alle pareti sono appesi paesaggi vittoriani con cornici molto elaborate. Il signor Oliver compare in cima alle scale.

È un ometto grassottello, con una carnagione giallastra e capelli così neri che sospetti siano tinti. Indossa un cardigan di cashmere sopra calzoni e panciotto. La camicia è di seta greggia. Fazzoletto da collo. Pantofole. Emana un forte profumo di Polo.

«Buonasera», gli dici.

«Salve», risponde lui con un accento molto strascicato. Quando arrivi in cima alle scale, lui fa un passo indietro, ti porge una mano grassottella e intanto ti squadra da capo a piedi. Preferiresti che la luce — proveniente da un lampadario in miniatura appeso nell’ingresso — fosse meno forte. I baffi ti fanno il solletico sotto il naso. Gli stringi la mano. La stretta del signor Oliver è umidiccia, ma piuttosto decisa. Il suo sguardo si posa sulla cartella rigonfia che tieni nell’altra mano. «Si accomodi», dice, e con un cenno t’invita a entrare.

Il salotto è un po’ pretenzioso. Il signor Oliver predilige tappeti bianchi e folti, divani in pelle nera, tavolini tutti in acciaio e cristallo, e un sistema HI-FI integrato con televisione, stereo e videoregistratore che occupa quasi tutta una parete.

«Si sieda. Gradisce un drink?» dice il signor Oliver, con la sua strana parlata, così strascicata che fai quasi fatica a capire le parole.

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