Jonathan Kellerman - Solo nella notte

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Solo nella notte: краткое содержание, описание и аннотация

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Una e un quarto di notte. Petra Connor, l’affascinante detective della squadra Omicidi di Los Angeles, è svegliata da una telefonata del distretto di polizia: strage al Paradiso Club. Quattro morti. Adolescenti che avevano partecipato a un concerto hip-hop. Perché quell’orrendo massacro? Oltre al gravoso incarico di decifrare il rebus, Petra deve fare da baby sitter al ventiduenne dottorando Isaac Gomez, impegnato in una ricerca statistica sui crimini avvenuti in città dal 1991 al 2001. Il suo Q.I. è superiore alla media, come la sua timidezza e la miseria in cui versa la sua famiglia. E se fosse proprio il giovane e impacciato cervellone a fornire la chiave dell’enigma? Incrociando i dati risultano infatti sei efferati delitti commessi negli ultimi sei anni, tutti subito dopo la mezzanotte. E tutti il 28 giugno. L’assassino sembra divertirsi un mondo a fracassare il cranio delle vittime osservandone colare la materia grigia. Quale disegno segue la follia? E quale legame con la carneficina del Paradiso?

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Il volto insignificante di Simkins si animò di memorie e un cipiglio risentito gli imprigionò i lineamenti. I ricchi che avevano invaso i ricordi della sua infanzia?

«Ci sono posti bellissimi laggiù.» Emozione sincera. Nostalgia. In quel momento gli fu un po’ più simpatico. Ma non molto.

49

«Niente male», dice Sam.

Ho sgobbato tutto il giorno, tirando e ritirando le finestre finché non c’erano più strisce, passando lo spazzettone sui pavimenti di legno, mettendoci il Pledge per farli brillare. Sono arrivato solo a metà delle panche, ma quelle che ho finito sono venute molto bene e la chiesa ha un bell’odore di limone.

Sam cerca di darmi il resto dei soldi.

«Non ho ancora finito.»

«Mi fido di te, figliolo. A proposito, adesso che lavori per me non è che mi vorresti dire come ti chiami?»

Mi coglie un po’ in contropiede e mi scappa fuori un Bill.

«Piacere di conoscerti, Bill.»

È tanto tempo che nessuno mi chiama per nome, tanto tempo che non parlo con nessuno.

Sam mi mostra un sacchetto. «Ti ho preso qualcosa da mangiare. Un panino di quelli semplici perché non so se ti piacciono le cipolle o quelle altre diavolerie che ci mettono. E del formaggio fuso. Ti piace il formaggio fuso?»

«Sì. Grazie.»

«Adesso sei un lavoratore, ti devi nutrire.» Mi consegna il sacchetto e va in giro per la shul. «Il Pledge ti ha preso bene, eh? Lo stai facendo fuori?»

«Quasi.»

«Domani te ne compero dell’altro. Se hai intenzione di lavorare anche domani, si capisce.»

«Certo.»

«Avanti, prendi i soldi.»

Li prendo. Lui guarda l’orologio. «È ora di smettere, Bill. Non vogliamo essere accusati di sfruttare i lavoratori.»

Usciamo e lui chiude a chiave. Il vicolo è deserto, ma si sente l’oceano nello spazio di fianco alla sinagoga, le voci della gente che cammina parlando. La grande Lincoln è parcheggiata tutta storta, con il paraurti che quasi tocca il muro. Apre lo sportello. «Ecco qui.»

«Arrivederci», dico io.

«Ci vediamo domani, Bill.» Lui sale in macchina e io mi avvio. Verso sud, lontano dal pervertito russo. Mi piace la sensazione di tutti questi soldi in tasca, ma dove vado? Torno al molo? Lì ci fa un freddo cane. Adesso ho del denaro…

Sento uno stridio forte, mi giro e vedo Sam che risale il vicolo a marcia indietro. Ha tutto il posto che vuole, ma continua a fermarsi e sterzare. Gli cigolano i freni.

Oddio, va a finire contro lo steccato… no, l’ha schivato. Sto pensando che dovrei aiutarlo prima che si faccia male, ma ce la fa da solo, girando il volante con entrambe le mani e la testa tutta protesa in avanti, come se faticasse a vedere attraverso il parabrezza.

Invece di manovrare per uscire dal vicolo, torna indietro. «Ehi, Bill. Sei sicuro di avere un posto dove stare questa notte?»

«Sì.»

«Dove? In strada?»

«Me la caverò.» Mi incammino. Lui mi resta al fianco guidando piano piano.

«Ti darei dei soldi per un albergo, ma nessuno accetta un bambino e se mostri tutto quel denaro, qualcuno te lo porta via di sicuro.»

«Me la caverò», ripeto.

«Certo, certo… Non posso lasciarti dormire in sinagoga, perché metti caso che scivoli e cadi, la responsabilità sarebbe nostra. E tu potresti farci causa.»

«Non lo farei mai.»

Lui ride. «No, credo di no, però lo stesso non posso… Senti, io ho una casa non lontano da qui. C’è spazio per tutti. Vivo da solo. Se vuoi stare da me per un giorno o due, nessun problema. Finché non avrai pensato a come sistemarti.»

«No grazie.» Mi viene fuori un po’ freddo e non mi giro a guardarlo in faccia perché so di averlo offeso.

«Come preferisci, Bill. Non ti biasimo. Probabilmente qualcuno ti ha fatto del male. Ora non ti fidi di nessuno. Per quello che ne sai, io potrei essere benissimo un mezzo matto.»

«Sono sicuro che non è matto.» Perché dico così?

«Come fai a essere sicuro, Bill? C’è mai modo di essere sicuri? Senti, quando avevo la tua età o qualche anno di più, non ricordo bene, sono venuti a portar via la mia famiglia. Li hanno uccisi tutti, ci siamo salvati solo io e mio fratello. Erano i nazisti. Ne hai mai sentito parlare? Solo che quando li conoscevo io, non erano nazisti, erano i miei vicini di casa, gente che vedevo tutti i giorni. La mia famiglia era vissuta nel loro paese per cinquecento anni, eppure guarda che cosa mi hanno fatto. Sto parlando della seconda guerra mondiale. Maledetti nazisti. Ne sai qualcosa?»

«Sicuro», dico io. «Ho studiato storia.»

«Storia.» Ride, ma non il riso di uno che si diverte. «Dunque non sono certo io a consigliarti di fidarti del prossimo. Hai ragione a stare in guardia, con tutti gli shmuck che ci sono in giro.» Lui ferma la macchina e mi fermo anch’io. Mi mette in mano altri soldi. Due biglietti da dieci.

«Non c’è bisogno, signor Ganzer.»

«Non c’è bisogno, ma lo voglio fare. Oh, diavolo, dormi in sinagoga questa notte. Solo vedi di non cadere e romperti il collo. E se te lo rompi, non farci causa.»

Poi ingrana la marcia indietro e risale fino alla shul. È spaventoso come sbanda e sterza di qui e di là. È un miracolo che non finisca a sbattere da qualche parte.

50

Quando aprì la porta di casa, Petra era sfinita, non si sentiva affatto un rapace notturno. Pensava alla prova che avrebbe dovuto superare Kathy Bishop l’indomani. Problemi concreti. Nessuna autocommiserazione per te stasera, cara mia. Aprì una lattina di coca, controllò la segreteria. Un servizio di telefonia interurbana prometteva di mettersi a sua totale disposizione se si fosse abbonata, Ron Banks aveva chiamato alle sette lasciando un prefisso che era probabilmente quello di casa sua, che per piacere lo richiamasse. Stesso invito da parte di Adele, una delle centraliniste alla stazione di polizia, che aveva chiamato alle otto e un quarto.

Le sarebbe piaciuto sentire per prima cosa Ron. Stare con lui, soli a parlare, abbracciarsi sul divano, lasciare che andasse dove voleva il destino. Prima il lavoro: chiamò Adele.

«Salve, detective Connor. Ho un messaggio dalla Pacific Division, un certo detective Grauberg. Le do il numero.»

Il distretto di Pacific era quello del caso Eggermann. Si era scoperto qualcosa di nuovo? Grauberg non c’era, ma le passarono un collega di nome Salant. «Abbiamo già parlato con voi.»

«Con chi, di preciso?»

«Un momento… Qui sta scritto capitano Schoelkopf. Si vede che Grauberg non ha trovato nessuno degli incaricati a cui riferire e gli hanno passato il piano di sopra.»

«Riferire che cosa?»

«La carcassa di un’auto che vi interessava. Porsche nera intestata a Lisa Boehlinger Ramsey.»

«Una carcassa? Sventrata?»

«Sventrata e abbandonata agli avvoltoi. In questo momento probabilmente fa il taxi a Tijuana. Un testimone dice che è rimasta ferma nello stesso posto per almeno quattro giorni.»

«Dove?»

«Dietro al deposito degli autobus vicino alla Pacific Avenue. Il testimone è un conducente.»

«Sventrata fin dall’inizio?»

«No. Un pezzo alla volta. Ieri sera qualcuno le ha appiccato il fuoco. È per quello che siamo intervenuti.»

Quattro giorni e nessuna segnalazione.

«Dalla strada non si può vedere», aggiunse Salant. «Era nascosta dietro a una fila di magazzini. È un rinomato cimitero di macchine rubate.»

«Adesso dov’è?»

«Alla Centrale. Divertiti.»

Conferì con alcuni criminologi prima di individuare una certa Wilkerson, che stava esaminando la Porsche. L’automobile era ridotta a un guscio carbonizzato, senza ruote, sedili, motore, parabrezza.

«Come un’invasione di cavallette», commentò la Wilkerson.

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