Jonathan Kellerman
Solo nella notte
«Ma la colomba mia, la compiuta mia, è unica.»
CANTICO DEI CANTICI, 6,9
A Faye, Per Faye. Alla fine, c’è sempre Faye.
Al parco se ne vedono di cose.
Ma come quello che ho visto stasera…
Dio…
Vorrei aver sognato, invece ero sveglio, e sentivo odore di carne al chili, di cipolle e poi di pini.
La macchina si è fermata ai bordi del parcheggio. Sono scesi e si sono messi a parlare. Poi lui l’ha presa forte, come per abbracciarla. Ho pensato che volevano baciarsi e sono stato a guardare.
Poi di colpo lei ha fatto un suono strano, come un cane o un gatto se lo calpesti.
Lui l’ha lasciata e lei è caduta. Poi lui si è chinato e il suo braccio ha cominciato a muoversi su e giù, veloce veloce. Ho pensato che la stesse picchiando ed era una cosa brutta, continuavo a pensare che forse dovevo fare qualcosa. Ma ho sentito un altro rumore, veloce, molle, come il macellaio a Stater Brothers giù a Watson quando taglia la carne: ciac ciac ciac.
E non la smetteva più, con quel braccio che saliva e scendeva.
Non respiravo. Mi sentivo il cuore caldissimo e le gambe fredde. Poi calde e bagnate.
Mi sono pisciato addosso, come un bambino piccolo!
Il ciac ciac è finito. Lui si è rialzato, era grande e grosso, si è asciugato le mani sui calzoni. Aveva qualcosa in mano e lo teneva come se gli facesse un po’ schifo.
Si è guardato intorno. Poi verso di me.
Mi vedeva, mi sentiva… mi fiutava ?
Continuava a guardare. Io volevo scappare ma sapevo che mi avrebbe sentito. Ma restando lì potevo finire in trappola. Come poteva vedere dietro le rocce? Sono come una grotta senza tetto, solo crepacci per guardar fuori; è per questo che sono venuto qui.
Lo stomaco ha cominciato a ballarmi dentro e avevo tanta voglia di scappare che sentivo i muscoli fremere sotto la pelle delle gambe.
Fra gli alberi è passato un venticello che ha portato odore di pino e puzza di piscio.
E se soffiava contro la carta del chiliburger e faceva rumore? Lui avrebbe sentito il mio odore?
Si è guardato ancora intorno. La pancia mi faceva male da morire.
A un tratto è tornato di corsa alla macchina, è salito e se n’è andato.
Io non volevo vedere quando è passato sotto il lampione, all’angolo del piazzale, non volevo leggere il numero della targa…
PLYR 1.
Le lettere mi sono rimaste impresse nella mente.
Perché ho guardato?
Perché?
Sono seduto ancora qui. Il mio Casio dice 01.12.
Devo andare via da qui ma se lui è ancora qui vicino e ritorna… No, che stupidata, perché dovrebbe tornare?
Non ce la faccio più. Lei è là e io sento odore di piscio e carne e cipolle e chili. Era una cena vera, l’avevo presa all’ Oki-Rama sul boulevard. Là dove c’è quel cinese che non sorride mai e non guarda mai in faccia. Mi è costata due dollari e trentotto e adesso ho voglia di vomitarla.
I jeans mi si stanno appiccicando addosso, mi fanno il solletico. Andare ai gabinetti pubblici dall’altra parte del piazzale è troppo pericoloso… Quel braccio che andava su e giù. Come uno che lavora. Non era grosso come Moron, ma era grosso abbastanza. Lei non si immaginava di certo, si era lasciata abbracciare… Che cosa ha fatto per farlo arrabbiare così… E se è ancora viva?
No. Impossibile.
Sto attento, ascolto per sentire se fa qualche verso. Sento solo il rumore dell’autostrada sul lato est del parco e il traffico del boulevard. C’è poco da sentire stanotte. Certe volte, quando il vento soffia da nord, mi arrivano i suoni delle sirene delle ambulanze, le moto, i clacson. La città è qui intorno. Il parco sembra campagna, ma so che è diverso.
Chi è quella donna… No, no, non voglio saperlo.
Quello che vorrei io è cancellare tutto.
Quel verso, come se le avesse tirato fuori l’aria con le mani. Perché certo è… andata. O no?
Anche se non lo è, lo sarà presto, dopo tutto quel ciac ciac. E poi che cosa posso fare per lei? Soffiarle aria in bocca, raccogliere il suo sangue?
E se lui torna mentre io sono lì?
Tornerebbe? È da stupidi, ma succede sempre qualche sorpresa. Lei lo ha scoperto.
Non posso aiutarla. Devo togliermi dalla testa tutta questa storia.
Starò qui ancora dieci minuti, anzi, facciamo quindici. Venti. Poi vado al mio Posto Due, tiro su la roba e via.
Dove? Il Posto Uno, quello all’osservatorio, è troppo lontano, e anche il Tre e il Quattro, anche se il Tre andrebbe bene perché lì c’è il ruscello dove lavare la roba. Allora il Cinque, nelle felci dietro lo zoo, con tutti quegli alberi. Un po’ più vicino ma sempre una bella tirata al buio.
Però è quello più difficile da scovare.
Va bene, vado al Cinque. Io e le bestie. Con tutto quel lamentarsi e ruggire e sbattersi contro le gabbie è difficile dormire; ma stanotte mi sa che non dormirò comunque.
Intanto sto qui ad aspettare.
Pregare.
Padre nostro che sei nei cieli, la facciamo finita con le sorprese?
Certe volte mi chiedo se lassù c’è qualcuno da pregare o solo stelle, palloni di gas in un vuoto universo nero.
Dire queste cose sarà peccato?
Forse lassù c’è davvero Dio, forse mi ha salvato un sacco di volte e io sono così scemo da non saperlo. Oppure non sono abbastanza buono da capirlo.
Forse Dio mi ha salvato anche questa sera mettendomi dietro le rocce invece che fuori allo scoperto.
Ma se quando è arrivato mi avesse visto, quello magari cambiava idea e non le faceva niente.
Allora forse è Dio che voleva…
No, quello poteva semplicemente andare a farlo da qualche altra parte.
Se per caso Tu mi hai salvato, grazie, Dio.
Se per caso sei lassù, hai un piano per me?
Lunedì, cinque del mattino.
Quando alla squadra Omicidi di Hollywood giunse la telefonata, Petra Connor stava già facendo gli straordinari, ma era ancora piena di energie.
Domenica aveva goduto del dono insolito di una bella dormita dalle otto del mattino fino alle quattro del pomeriggio, al riparo dai brutti sogni, da pensieri di tessuti cerebrali straziati o uteri vuoti. Ridestatasi nel tepore di un bel pomeriggio, aveva approfittato delle ultime ore di luce per trascorrere un po’ di tempo al cavalletto. Poi, dopo un sandwich al pastrami, una coca e una doccia calda, si era recata alla stazione di polizia per andare a concludere l’appostamento.
Era uscita con Stu Bishop appena sceso il buio e aveva percorso le vie secondarie trascurando i casi di piccola criminalità, perché la loro missione era molto più importante. Trovato il luogo adatto, i due poliziotti avevano cominciato a sorvegliare il caseggiato di Cherokee Street, senza parlarsi.
Di solito chiacchieravano, riuscivano a ravvivare un po’ la noia dell’attesa. Ma ultimamente Stu si comportava in modo strano. Assente, laconico, come se il lavoro non gli interessasse più.
Era forse il quinto turno di notte consecutivo.
Petra ne era seccata, ma che cosa poteva fare, era lui il collega anziano. Cercò di non pensarci, richiamò alla mente i dipinti fiamminghi al Getty. Colori straordinari, uso superbo della luce.
Due ore di immobilità da intorpidire le natiche. La pazienza li aveva ricompensati poco dopo le due e un altro assassino, idiota ma sfuggente, era stato assicurato alla giustizia.
Ora sedeva a una ruvida scrivania metallica di fronte a Stu, a redigere il rapporto, a pensare che appena rincasata non le sarebbe dispiaciuto disegnare un po’. Quei cinque giorni l’avevano tonificata. Stu, al telefono con la moglie, sembrava mezzo morto.
Era un giugno mite, il clima era invitante già ben prima dell’alba, e il fatto che fossero ancora in ufficio in coda al turno di notte di un’operazione pregiudicata da una grave carenza di personale era deprecabile.
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