— D’accordo, Matthew, controlliamo subito l’intera famiglia: padre, madre, fratelli, chiunque. Non dovrebbe essere difficile. È gente molto in vista.
— Bravo. Ma fai in fretta, George: se Jackson è davvero uno dei Crane, e ha davvero assassinato sua sorella, non credo che sia rimasto ad aspettare una tua visita di cortesia.
— Cristo, Matt, stai parlando di fratricidio!
— Per l’appunto. Hai idea di che cosa potrebbe fare a qualcuno al di fuori della sua famiglia?
— Matt, ascolta…
Ma Riggs aveva già riappeso. Appoggiato alla parete della cabina telefonica, chiuse gli occhi e sospirò. Per la prima volta intravedeva un barlume di speranza.
Era certo che l’Fbi non sarebbe mai riuscito a prendere Jackson, nemmeno in mille anni di rastrellamenti. Ma quella nuova svolta, per LuAnn e per lui funzionava alla grande. Jackson tagliato fuori dal suo intero sistema malefico, braccato da tutte le polizie degli Stati Uniti, furibondo, assetato di vendetta e senza il controllo degli eventi, era un uomo finalmente vulnerabile.
Era tempo di muoversi. Dieci minuti dopo, Riggs e LuAnn erano di nuovo in macchina.
Jackson chiuse la comunicazione sul telefono cellulare e si rilassò contro lo schienale, osservando le nubi color inchiostro che vorticavano fuori dall’oblò.
L’uomo che seguiva Charlie e Lisa aveva appena fatto rapporto. Dopo l’ultimo pernottamento, i due stavano rientrando in Virginia attraverso il confine meridionale. Charlie aveva fatto una sola telefonata. A LuAnn Tyler, nessun dubbio in merito. Tutto stava procedendo come doveva.
Un’ora più tardi, Jackson attraversava Manhattan, diretto al suo attico. Una breve sosta, prima di andare a prendere suo fratello Roger. Non potendo contare sul fatto che viaggiasse da solo, sarebbe dovuto andare a prelevarlo di persona.
In cinquant’anni di onorato servizio come portiere in uno dei più prestigiosi edifici residenziali di Park Avenue, Horace Parker non aveva mai visto una cosa del genere. In quel palazzo, l’appartamento di media dimensione copriva quattrocento metri quadrati e costava sui cinque milioni di dollari. E l’attico, grande tre volte tanto, ne valeva venti. Parker osservò il piccolo esercito di uomini armati penetrati quasi simultaneamente da ogni direzione. Tutti portavano auricolari e indossavano giubbe di nylon blu con la scritta Fbi sulla schiena. Tutti imbracciavano pistole-mitragliatrici o pistole semiautomatiche. Con aria decisa, si infilarono nell’ascensore privato che portava all’attico.
Horace Parker si sentì improvvisamente di troppo e uscì sulla strada, a respirare a fondo l’aria fredda della notte autunnale. In quel momento, un taxi si avvicinò al marciapiede. Il portiere si precipitò verso Jackson.
Conosceva lui e suo fratello minore Roger fin da quando erano bambini. Fin da quando, per arrotondare lo stipendio, li accompagnava a gettare soldini nelle fontane di Central Park. Era stato lui a offrire ai due ragazzi, entrambi appena oltre la soglia della pubertà, la loro prima birra. Li aveva visti crescere, farsi adulti e infine volare via da quel nido dorato. Nel tempo, aveva appreso che la famiglia Crane era caduta in serie difficoltà finanziarie, e aveva lasciato New York. Ma poi Peter Crane era tornato, comprando l’attico e facendone nuovamente il proprio nido dorato. Evidentemente, i problemi economici erano finiti.
— Signor Crane? Mi perdoni, signore…
— Che cosa c’è, Horace? Sono un poco di fretta…
— Uomini armati, signore. — Horace alzò lo sguardo al cielo. — Uomini dell’Fbi. Sono saliti al suo appartamento, proprio ora. Credo stiano aspettando che lei rientri.
Jackson si bloccò, ma rispose con la massima calma. — Un semplice malinteso. — Gli porse la mano destra e il portiere gliela strinse. — La ringrazio per l’informazione, Horace.
Quando Horace Parker guardò cosa gli era rimasto in mano, trovò un fascio di banconote, tutte da cento dollari. Si guardò attorno furtivamente e dopo averli infilati nella tasca riprese la sua posizione accanto alla porta.
Jackson si allontanò e andò ad appostarsi nell’oscurità di un vicolo dall’altra parte della strada. Da lì poteva scorgere numerose ombre fluttuare dietro le finestre illuminate dell’attico. Era pieno di veleno. Come era stato possibile che fossero risaliti fino a lui? Non poteva rispondere adesso a questa domanda. C’erano problemi più urgenti da risolvere. Estrasse il telefono cellulare e venti minuti dopo saliva su una limousine. Dall’automobile chiamò il fratello, e gli diede appuntamento di fronte al St. James Theater di lì a poco. Insistette sull’urgenza dell’incontro.
Il rischio che la polizia piombasse in casa di Roger da un minuto all’altro era troppo elevato. La terza telefonata fu al comandante del suo jet personale, a disposizione ventiquattr’ore su ventiquattro, equipaggio al completo e serbatoi pieni, all’aeroporto La Guardia. Lo avvertì di preparare un certo piano di volo e di tenersi pronto al decollo entro l’ora successiva.
Quando arrivò all’appuntamento con Roger, Jackson aveva fatto in tempo a raccogliere qualcosa in un piccolo appartamento affittato sotto falso nome.
— Ehi, Pete! Stavo proprio pensando a te…
— Non pensare, Roger. — Jackson spalancò la portiera posteriore della limousine. — Entra e basta.
Roger Crane, stessi capelli scuri, stessi lineamenti delicati del fratello, si lasciò cadere sui sedili di pelle e la limousine si rimise in movimento.
— Hai sentito il telegiornale, Roger?
— Lo sai che la TV non la guardo mai. Perché?
Jackson ignorò la domanda. Era ovvio che suo fratello non sapeva di Alicia. Perfetto. Jackson si rilassò nel sedile, compiacendosi di aver bruciato gli sbirri arrivando per primo su Roger, e si concentrò sulle prossime mosse.
Cinquantacinque minuti più tardi, la scintillante distesa di luci di New York City svaniva nelle tenebre sotto di loro.
Quando l’Fbi raggiunse l’appartamento di Roger Crane, era ormai troppo tardi. Ma l’attico di Peter riservò loro interessanti sorprese.
George Masters raggiunse Lou Berman nel locale del makeup di Jackson. Lou era in piedi di fronte a uno dei banchi del trucco, lo sguardo sulla distesa di facce finte, labbra finte, denti finti, capelli finti, occhi finti e mille altri accessori.
Nel resto dell’attico, il battaglione di agenti federali stava passando tutto quanto al setaccio. Avevano trovato l’archivio segreto e la sala controllo con i computer e gli apparati di comunicazione.
— Che ne pensi? — domandò Berman.
— Pare che Riggs abbia ragione. È un uomo solo. Forse possiamo ancora farcela — ribatté Masters.
— Come ci muoviamo?
— Metti tutta la baracca in allarme rosso: porti, aeroporti, treni e autobus. Voglio blocchi stradali tutt’attorno a New York. L’uomo che cerchiamo è armato, molto pericoloso ed estremamente abile nel travestimento. Non servirà a niente, ma distribuiamo comunque le sue fotografie. Lo abbiamo tagliato fuori dal suo nucleo, ma Peter Crane dispone di immensi mezzi finanziari e io non ho intenzione di correre il minimo rischio. L’ordine è sparare. Per uccidere.
— Come la mettiamo con Riggs e la Tyler?
— Che non si mettano loro di mezzo. Perché io non rischierò la vita dei miei uomini per proteggerli. Per quanto mi riguarda, LuAnn Tyler dovrebbe essere dietro le sbarre da almeno dieci anni. Un accordo è un accordo, e va bene. Ma se vuole rimanere fuori di galera deve tenere la bocca chiusa. Perché non vai a ispezionare il resto della collezione?
Berman procedette e Masters aprì l’album personale di Jackson, l’archivio dei dodici vincitori della Lotteria Nazionale. Le loro foto, le loro storie, le loro vite. Masters si soffermò su LuAnn Tyler. Ora capiva perché era stata scelta lei e perché erano stati scelti tutti gli altri. Gente ridotta al limite estremo della vita, senza soldi, senza casa, senza futuro. E senza speranza. Pronta a cadere nelle braccia di quell’uomo.
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