David Baldacci - Il biglietto vincente

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l destino sembra sorridere a LuAnn, giovane disoccupata: il misterioso signor Jackson le offre infatti il biglietto vincente di una lotteria che vale milioni di dollari. Ma prima di riuscire a godere della sua grande occasione, la ragazza trova a casa il cadavere del suo uomo in un lago di sangue e si scopre braccata dalla polizia, preda di una trappola mortale.
Un intrigo micidiale, costruito come un congegno a orologeria.

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Adottò un tono di voce più tranquillo. — Okay Peter, come vuoi tu, me ne andrò stanotte stessa.

Un’espressione feroce brillò negli occhi di Jackson. Aveva letto nei lineamenti alterati del volto della sorella come in un libro aperto. Le sue dita si chiusero su un grosso cuscino appoggiato sul divano.

— E dove vorresti andare, Alicia?

— Dove vuoi, Peter. La Nuova Zelanda andrà benissimo.

— Preferisci l’Austria? Ci siamo divertiti laggiù, tu ed io, ricordi?

— Sì, Peter, ci siamo divertiti. — Alicia seguiva con gli occhi sbarrati ogni movimento del fratello, mentre un nòdo le stringeva la gola. — Magari potrei farci un salto, prima di andare in Nuova Zelanda.

— E non dirai niente alla polizia? Lo prometti? — Jackson sollevò il cuscino. Alicia cominciò a tremare violentemente.

— Ti prego, Peter, non farlo. Ti prego…

— Il mio nome è Jackson. Peter Crane non abita più qui.

Con un movimento improvviso, le fu addosso, premendole il cuscino sul volto. Alicia lottò con tutte le sue forze. Calci, contorsioni, graffi, sussulti. Ma era una donna minuta, fragile. Se Peter Crane aveva passato mesi, anni a trasformare il proprio corpo in una macchina micidiale, il corpo e la mente di Alicia Crane si erano atrofizzati nella vana attesa di un principe azzurro identico a suo padre.

In pochi istanti, fu tutto finito. Jackson sollevò lentamente il cuscino. Il braccio sinistro di lei, improvvisamente pallido, ricadde inerte oltre il bordo del divano. Jackson si costrinse a guardare. La bocca era semiaperta, gli occhi sbarrati. Li chiuse e compose il corpo. Le incrociò le braccia sul petto ma subito cambiò idea, e le lasciò allungate ai lati del corpo. Sollevò delicatamente le gambe, distendendole per la lunghezza del divano. Dietro la nuca le collocò il cuscino che aveva usato per ucciderla. Poi le aggiustò i capelli a formare una specie di aureola. La trovò bella, così serena e immobile, come se nulla di terribile fosse avvenuto. Le lacrime gli riempirono gli occhi, e lui non cercò di trattenerle. Non riusciva a ricordare quando era stata l’ultima volta che aveva pianto. In ogni caso, non aveva nessuna importanza.

Ebbe un attimo di esitazione, poi le prese la mano e le tastò il polso. Se Alicia fosse stata ancora viva, avrebbe abbandonato immediatamente quella stanza, il paese, tutto. Ma Alicia era morta. Non sarebbe dovuto succedere. Avrebbe dovuto esserci Roger steso su quel divano. Ma forse suo fratello poteva ancora giocare un ruolo in tutto questo. Gli avrebbe fatto un’offerta, qualcosa che non avrebbe potuto rifiutare. Il denaro restava sempre la droga più potente.

Ora doveva fare in fretta. La domestica poteva rientrare da un momento all’altro. Si era cosparso i polpastrelli di una sostanza trasparente simile alla lacca, così da non lasciare impronte di nessun tipo. L’omicidio di Alicia Morgan Crane era un classico caso risolto ancora prima che le indagini avessero inizio. L’assassino non poteva che essere Thomas Donovan, brutale psicopatico nel bel mezzo di un raptus pluriomicida.

Addio, Alicia Morgan Crane. Eri un pilastro della società, proprio come Roberta Reynolds. La tua famiglia è stata molto importante, il tuo necrologio sarà lungo e il tuo funerale sontuoso come meriti. E a un certo punto, Peter Crane sarà chiamato a seppellirti, insieme al fratello Roger.

Uscì dalla porta sul retro, come un ladro. Quel volto immoto sul cuscino, quel volto tanto simile al suo, continuava a fiammeggiare nella sua mente. Non avrebbe dovuto arrivare a tanto. Aveva perso la testa, cosa che gli succedeva di rado. Si guardò le mani, quelle mani che erano state strumento della morte di sua sorella. Le gambe gli tremavano, il corpo rifiutava di sottomettersi al controllo della mente.

Tornato in strada, cercò di concentrare i suoi pensieri sulla persona responsabile di tutto quanto era successo. LuAnn Tyler avrebbe pagato per il dolore che gli stava causando. Avrebbe moltiplicato le sofferenze di quella donna oltre ogni limite, finché lei stessa non avesse implorato la morte.

Non avrebbe neanche avuto bisogno di cercarla. Sarebbe venuta da lui spontaneamente, perché lui avrebbe avuto qualcosa che le premeva. Qualcosa per cui LuAnn sarebbe stata disposta a morire.

Mentre faceva a se stesso questo giuramento, l’immagine di un corpo inanimato danzava nella sua mente, qualcuno il cui volto assomigliava al suo.

53

Matthew Riggs camminava lentamente lungo il bordo del Mall, la grande vasca rettangolare che partiva dal monolite bianco del Lincoln Memorial e che pareva estendersi verso l’infinito. L’aria sapeva di pioggia e rade gocce cadevano sulla superficie increspata dal vento.

Per l’ennesima volta, consultò l’orologio al polso e voltò lo sguardo verso la scalinata che conduceva al mausoleo. Stava aspettando LuAnn ormai da tre ore. Per quanto ne sapeva, poteva essere svanita per sempre. Ma Jackson restava sempre in circolazione, e la prossima volta non avrebbe sbagliato bersaglio.

Dopo la sua sparata all’Hoover Building, le sue battute, le sue minacce e i suoi ricatti, se non fosse riuscito a dare Jackson in pasto all’Fbi, l’Fbi avrebbe dato lui in pasto a quei signori che pensavano di aver fatto il lavoretto cinque anni addietro.

Le gocce di pioggia si fecero più dense. Riggs si calcò sulla fronte il feltro nero. Tornare a casa? Non poteva. Tornare al lavoro? Non lo aveva più. E inoltre la ferita al braccio gli stava facendo soffrire le pene dell’inferno, in tasca gli restavano sì e no cinque dollari e non aveva un’auto. Non era mai stato così a terra da quando sua moglie era morta. In una settimana la sua imitazione di vita normale si era disintegrata. Sopralluoghi tecnici, direzione lavori per i benestanti di Charlottesville, un buon libro vicino alla finestra del suo studio, qualche corso serale all’università, la vaga idea di prendersi una vera vacanza. Tutto perduto, tutto finito…

Riggs si soffiò ripetutamente sulle dita gelate e si strinse il bavero.

— Mi dispiace, Matt.

Quando si girò, il suo umore ebbe una tale impennata che gli parve di accusare un senso di vertigine. Ma non riuscì a sorridere, sebbene lo desiderasse disperatamente. — Per che cosa?

LuAnn si sedette al suo fianco e gli passò un braccio sulle spalle. Non rispose subito, ma vagò con lo sguardo per un po’, finché gli prese le mani fra le proprie e disse sommessamente: — Per aver avuto dei dubbi.

— Su di me?

— Hai ragione, non avrei dovuto. Non dopo tutto quello che hai fatto e che stai ancora facendo.

Riggs respirò a fondo. — Certo, tutti abbiamo dubbi, e comunque… adesso sei qui. — Questa volta riuscì a sorriderle, e in quel sorriso sentì sciogliersi tutta l’ansia e la frustrazione accumulata in quelle lunghe ore di attesa. — Il resto non ha più importanza. Il mio voto va a un posto riscaldato in cui fare due chiacchiere.

LuAnn lo abbracciò teneramente. — Qualsiasi posto va bene.

Prima di trovare rifugio nel tepore di un locale, si liberarono della Honda e presero una macchina a nolo, poiché Riggs si era stancato di dover trafficare ogni volta con i fili elettrici per la messa in moto. Quindi si spostarono lungo il confine occidentale della Contea di Fairfax, e strada facendo Riggs la aggiornò sull’esito della trattativa con l’Fbi, finché si fermarono a un ristorante pressoché vuoto. Il cameriere masticava uno stuzzicadenti seguendo assorto gli appassionanti sviluppi di una telenovela: un brav’uomo senza una sola preoccupazione al mondo. Né LuAnn né Riggs avevano più la minima idea di che cosa fosse un simile stato d’animo. Gli passarono davanti e si sedettero a un tavolo d’angolo.

Dopo aver finito di leggere la cronaca dell’omicidio Reynolds, LuAnn abbassò la copia del Washington Tribune. — È colpa mia.

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