David Baldacci
Il biglietto vincente
A Collin,
il mio amico, il mio ragazzo, mio figlio
Jackson era in agguato.
Sapeva che la sua preda sarebbe apparsa, era solamente questione di tempo. Sapeva che a un certo punto l’avrebbe vista aggirarsi nell’ampio corridoio del centro commerciale: una figura slanciata fra madri incolori che spingevano carrozzine stracariche, e gruppi di pensionati usciti a fare due passi e una chiacchierata.
Jackson scrutò verso l’ingresso nord. Era da lì che sarebbe arrivata. La fermata dell’autobus si trovava appena fuori delle porte a vetri, e quello era l’unico mezzo di trasporto di cui lei disponeva. Il furgoncino pick-up dell’uomo con il quale viveva era sotto sequestro in una rimessa della polizia, per la quarta volta in quattro mesi. Per andare a prendere l’autobus che passava dal centro commerciale, aveva dovuto fare quasi due chilometri a piedi, con la bambina. Perché lei non lasciava mai la bambina da sola con il suo uomo. E Jackson lo sapeva.
Jackson si passò lentamente le mani sul volto. Non era il suo vero volto. Percepì la corpulenta struttura fisica premere contro le cuciture dell’abito grigio che indossava. Ma anche il corpo non era il suo. In futuro quel volto e quel corpo avrebbero subito altre metamorfosi. Il doppio mento sarebbe scomparso, il peso sarebbe diminuito, la statura alterata, i capelli infoltiti o diradati. E il sesso? Maschile o femminile? Giovane d’età o in là con gli anni? Lo avrebbe deciso più tardi, molto più tardi. A volte, l’aspetto che assumeva aveva una rassomiglianza con qualcuno che conosceva. Oppure era una mescolanza di persone diverse, di facce diverse, di comportamenti diversi. Il tutto integrato in un insieme perfettamente armonico, assolutamente privo di incongruenze.
A scuola era affascinato dallo studio della biologia, in particolare da quegli esseri viventi appartenenti alla più speciale delle classi: gli ermafroditi. Pensò a quell’esplosivo trionfo di dualità fisica, e si concesse un sorriso appena percettibile.
Jackson. Soltanto il nome sarebbe rimasto il medesimo per la durata di quel suo affare.
Aveva ricevuto un’educazione di prim’ordine in una delle più prestigiose università dell’Est degli Stati Uniti. Combinando il suo acume nella scienza con il suo amore per la recitazione, aveva conseguito una singolare e straordinaria doppia laurea in ingegneria chimica e arte drammatica. Di giorno in laboratorio a studiare complesse equazioni o maleodoranti intrugli, di notte a calcare le scene allestendo i classici di Tennessee Williams e di Arthur Miller.
Una doppia esperienza che si era rivelata di valore incalcolabile, come avrebbero potuto constatare i suoi docenti se l’avessero visto ora in quelle condizioni.
Un velo di sudore apparve sulla sua fronte. Del tutto normale per un uomo sulla cinquantina, troppo fuori forma, con troppi chili addosso e immerso in una quotidianità troppo sedentaria. Il suo sorriso si accentuò. Il sudore era una reazione fisica perfettamente adeguata, che derivava però dai vari strati d’imbottitura sotto l’abito grigio che conferivano un aspetto massiccio a! suo corpo naturalmente magro.
Ma c’era di più. Jackson non si limitava ad apparire qualcun altro. Jackson diventava qualcun altro. Era come se, nella sua profondità organica, le reazioni fisiologiche si modificassero fino alla compenetrazione totale, all’osmosi assoluta con ciò che lui era all’esterno.
In condizioni normali, Jackson non avrebbe mai frequentato un centro commerciale. Il suo gusto personale si orientava verso luoghi di gran lunga più sofisticati. Ma era questo l’habitat delle sue prede. Era in posti come questo che si sentivano a loro agio. E lui voleva che loro si sentissero a loro agio. Era un fattore cruciale per la sua strategia. Nell’incontrarlo, le prede erano quasi sempre in uno stato di eccitazione psicologica, talvolta negativa, nei suoi confronti. Alcune interviste erano anche arrivate sul punto di sfuggire al suo controllo. Il ricordo gli procurò un nuovo sorriso. Non aveva importanza. Avrebbe vinto, sempre, dovunque e comunque. Ma doveva continuare a essere cauto. Un errore, bastava un unico, insignificante errore da parte sua e tutto si sarebbe potuto disintegrare in un milione di frammenti. Il sorriso svanì. Assassinare qualcuno non era mai un’esperienza piacevole. Raramente c’erano valide giustificazioni, ma ciò che doveva essere fatto sarebbe stato fatto. Punto e a capo. Jackson sperò che in quell’incontro tutto sarebbe filato per il verso giusto.
Tolse il fazzoletto dal taschino della giacca e si asciugò il sudore che gli imperlava la fronte. Quindi si aggiustò i polsini della camicia. Appiattì una sporgenza quasi invisibile tra le fibre sintetiche del parrucchino. I suoi veri capelli erano compressi sotto una calotta di lattice.
Aprì la porta dei locali per uso ufficio che aveva affittato nel centro commerciale ed entrò. Tutto pulito, ordinato. Troppo ordinato. Privo di quel minimo di confusione inevitabile in qualsiasi ambiente di lavoro.
La segretaria seduta dietro la scrivania nell’atrio alzò lo sguardo su di lui. Non disse una parola. Le aveva ordinato lui di non farlo. Non voleva che quella donna avesse la benché minima idea di chi lui fosse, né della ragione per la quale lei si trovava lì. Nel momento in cui la preda avesse fatto la propria comparsa, le disposizioni erano che la segretaria semplicemente si alzasse e se ne andasse. Per quanto la riguardava, il resto era semplice: un autobus che portava fuori città, del contante in una busta per il suo disturbo.
Jackson non la degnò nemmeno di un’occhiata. Per lui quella donna era né più né meno di un arredo di scena per la sua ultima produzione teatrale. Esattamente come tutto il resto in quella stanza. Il telefono era un oggetto inerte, silenzioso. La macchina per scrivere una specie di simulacro altrettanto inerte. Jackson corrugò la fronte finta. Non andava. Decisamente troppo ben organizzato, quell’ufficio. Il suo sguardo si spostò alla risma di carta sulla scrivania. Con un gesto improvviso ne sparse alcuni fogli sul ripiano. Poi orientò il telefono in modo diverso, inserì un foglio di carta nel rullo della macchina per scrivere e diede un paio di rapide rotazioni alla manopola. Lanciò un’altra occhiata. Trasse un sospiro. Non perfetto, ma meglio di prima.
Jackson passò oltre l’angusta saletta d’attesa, percorse un breve corridoio, svoltò a destra ed entrò nel piccolo ufficio che completava l’ambiente. Sedette dietro la scrivania di legno. In un angolo c’era un televisore, spento, simile a uno sguardo cieco. Jackson si accese una sigaretta e spinse all’indietro lo schienale della poltroncina.
Quiete. Calma dentro.
Era quella la chiave. Non permettere che il flusso dell’adrenalina superasse il livello di guardia. Si passò un polpastrello sui baffi scuri, sottili, composti della stessa fibra sintetica del parrucchino, attaccati al suo labbro superiore con una colla da trucco. Anche sul naso aveva lavorato parecchio. La conformazione sottile, quasi delicata del vero naso era stata alterata in una sorta di proboscide bulbosa, un po’ storta. Poco sopra la narice destra c’era un porro, finto anch’esso, ottenuto con un’emulsione in acqua calda di gelatina e di semi di trifoglio finemente tritati. Capsule in materiale acrilico trasformavano i suoi denti bianchissimi e splendidamente squadrati in una chiostra scalena, dall’aspetto malsano. Jackson esalò il fumo lentamente. Mezza età, ventre prominente, baffi sottili, denti brutti.
Illusioni, nient’altro che illusioni.
Eppure sarebbero stati quelli gli elementi fisionomici che un osservatore casuale avrebbe notato. Sarebbe stato quello l’uomo che il medesimo osservatore avrebbe descritto. E nel momento in cui le illusioni si fossero disgregate, anche l’uomo si sarebbe disgregato, insieme con il suo carico di attività illegali e malefiche.
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