«Non trovi che sia pazzesco tutto questo, Shane? Chi avrebbe mai detto che la stessa ragazza che ha trascorso quasi dieci anni in topaie come il McIlroy e Caswell, potesse finire a vivere qui , senza dover prima attendere di reincarnarsi in una principessa?»
La casa era così lussuosa e imponente che avrebbe indotto chiunque la possedesse a sentirsi un vip e a mostrarsi un po’ presuntuoso. Ma quando Jason Gaines rientrò a casa, alle quattro, si rivelò molto alla mano, più di chiunque altro Laura conoscesse, ed era straordinario in una persona che da diciassette anni viveva nel mondo dello spettacolo. Aveva trentotto anni, cinque più di Thelma, e assomigliava a Robert Vaughn da giovane. Era molto più che «piacente», come l’aveva descritto Thelma. Non era trascorsa neanche mezz’ora dal suo rientro che lui e Chris si ritirarono in una delle tre stanze adibite ai suoi hobby a giocare con un trenino elettrico che correva su una piattaforma grande quattro metri e mezzo per sei, con tanto di villaggi ricostruiti minuziosamente, paesaggi, mulini a vento, cascatelle, gallerie e ponti.
Quella sera, quando Chris si era già addormentato nella stanza accanto a quella di Laura, Thelma andò a trovarla. In pigiama si sedettero a gambe incrociate sul letto, come se fossero ancora ragazzine, mangiando pistacchi tostati e bevendo champagne.
«La cosa più strana di tutte, Shane, è che nonostante le mie origini io sento di appartenere a questo posto. Non mi sento fuori luogo.»
E neanche il suo aspetto sembrava fuori luogo. Sebbene fosse sempre lei, Thelma Ackerson, negli ultimi mesi era cambiata. I capelli erano tagliati e pettinati con maggior cura, per la prima volta nella sua vita era abbronzata e inoltre aveva un atteggiamento molto più femminile. Indossava un pigiama meno vistoso e più sexy del solito: aderente, senza disegni, di seta color pesca. Tuttavia portava ancora le pantofole da coniglietto.
«Le pantofole da coniglietto», disse, «mi ricordano chi sono. Non puoi montarti la testa se porti un paio di babbucce così. Non puoi perdere il senso della realtà e cominciare ad atteggiarti a star o a ricca signora se continui a indossare delle pantofole da coniglietto. Inoltre mi danno un senso di sicurezza, perché sono allegre. È come se dicessero: ‘Nulla al mondo potrà deprimerti a tal punto da impedirti di essere stupida e frivola’. Se morissi e dovessi ritrovarmi all’inferno, potrei sopportare quel posto se avessi con me le mie pantofole.»
Il giorno di Natale fu come un sogno meraviglioso. Jason si rivelò un sentimentale tradizionalista. Insistè perché si radunassero intorno all’albero di Natale in pigiama, che aprissero i loro doni in allegria, che cantassero le filastrocche di Natale e che mentre aprivano i pacchetti abbandonassero l’idea di una sana colazione preferendo mangiare biscotti, dolci, nocciole, gelatine e pop corn caramellati. Dimostrò anche che il giorno prima non aveva giocato con Chris solo per dimostrare di essere un bravo padrone di casa. Tutto il giorno di Natale lo trascorse infatti con il bambino, facendogli fare tanti giochi diversi, sia in casa sia fuori ed era chiaro che amava i bambini e aveva con loro un rapporto naturale. Quando furono a cena Laura si rese conto che Chris aveva riso più in un giorno che negli ultimi undici mesi.
Quando lo mise a letto, Chris le disse: «È stato un giorno fantastico, vero mamma?»
«Uno dei più belli in assoluto», concordò Laura.
«Tutto ciò che vorrei», mormorò Chris scivolando nel sonno, «è che papà fosse qui a giocare con noi.»
«Io vorrei la stessa cosa, dolcezza mia.»
«Ma in un certo modo era qui, perché ho pensato molto a lui. Lo ricorderò sempre, mamma, voglio dire com’era, anche dopo tanti e tanti anni? Me lo ricorderò?»
«Io ti aiuterò a ricordarlo, bambino mio.»
«A volte già mi succede di non ricordare alcune cose di lui. E ci devo pensare parecchio per ricordarle. Ma io non voglio dimenticare perché era il mio papà.»
Quando si fu addormentato, Laura andò nella sua stanza. Si sentì sollevata quando, pochi minuti dopo, Thelma arrivò per fare un’altra chiacchierata. Senza di lei avrebbe dovuto sicuramente lottare per non lasciarsi sopraffare dalla tristezza.
«Se dovessi avere dei bambini, Shane», disse Thelma salendo sul letto di Laura, «pensi che ci sarà qualche possibilità che siano ammessi a vivere nella società, oppure sarebbero rinchiusi in qualche istituto per bambini mostruosi, tipo lebbrosario?»
«Non fare la stupida.»
«Oh, be’, certamente potrei permettermi di sottoporli a qualche operazione di chirurgia plastica. Voglio dire, anche se venisse fuori che la loro specie è ambigua, potrei permettermi di farla diventare passabilmente umana.»
«A volte il modo in cui ti umili mi fa veramente incazzare.»
«Scusa. Ma è dovuto al fatto che non ho mai potuto godere del sostegno di una madre o di un padre. Ho la sicurezza e nello stesso tempo il dubbio di un orfano.» Rimase in silenzio per un attimo, poi disse: «Ehi, sai una cosa? Jason mi vuole sposare. Al principio ho pensato che fosse posseduto da un demonio e fosse incapace di controllare la lingua, ma mi ha assicurato che non abbiamo bisogno di un esorcista, anche se evidentemente deve aver sofferto di un leggero colpo apoplettico. Che cosa ne pensi?»
«Che cosa ne penso io? Ma che cosa importa? Be’, direi che è un tipo veramente giusto. Te lo terrai ben stretto, non è vero?»
«Ho paura che sia troppo buono per me.»
«Nessuno è troppo buono per te. Sposalo.»
«Ho paura che non funzionerà e allora finirò per essere distrutta.»
«E se non ci provi», replicò Laura, «sarai ben più che distrutta. Sarai sola.»
Stefan sentì il familiare, spiacevole formicolio che accompagnava il viaggio nel tempo, una strana vibrazione che passava internamente dalla pelle, attraverso la carne, nel midollo delle ossa, poi ritornava velocemente dalle ossa alla carne, alla pelle. Lasciò il tunnel e nello stesso istante eccolo avanzare a passo incerto lungo un ripido pendio ricoperto di neve nelle montagne della California, la notte del 10 gennaio 1989.
Inciampò, cadde sul lato in cui era stato ferito, rotolò fino in fondo al pendio, dove si fermò contro un tronco d’albero marcio. Per la prima volta da quando era stato ferito avvertì il dolore. Urlò e cadde sulla schiena, mordendosi la lingua per rimanere cosciente, socchiudendo gli occhi di fronte a quella notte tumultuosa.
Un’altra saetta lacerò le tenebre e la luce sembrò pulsare da quello squarcio. Nel riverbero spettrale della terra ricoperta di neve, al bagliore dei lampi, Stefan vide che si trovava in una radura nella foresta. Le sagome nere degli alberi spogli protendevano i loro rami scheletrici verso il cielo lampeggiante, come se fossero fanatici seguaci in adorazione di un dio brutale. I sempreverdi, i rami ripiegati sotto la pesante coltre della neve, si ergevano solenni.
Arrivando in un’epoca diversa dalla propria, un viaggiatore infrangeva le forze della natura in modo tale che era necessaria la dispersione di una incredibile quantità di energia. Indipendentemente dalle condizioni atmosferiche presenti nel punto di arrivo, lo squilibrio veniva compensato da una straordinaria manifestazione di lampi nel cielo, e questo era il motivo per cui la strada eterica che i viaggiatori del tempo percorrevano veniva chiamata la Via del Lampo. Per motivi che nessuno era stato in grado di appurare, un ritorno all’istituto, ovvero nell’era a cui apparteneva il viaggiatore, non era contrassegnato da nessuno spettacolo pirotecnico celeste.
I lampi, come sempre accadeva, da fulmini degni dell’apocalisse si trasformarono in lontani tremolii. In un minuto la notte fu di nuovo buia e calma.
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