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Dean Koontz: Lampi

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Dean Koontz Lampi
  • Название:
    Lampi
  • Автор:
  • Издательство:
    Sperling & Kupfer
  • Жанр:
  • Год:
    1990
  • Город:
    Milano
  • Язык:
    Итальянский
  • ISBN:
    88-200-1025-9
  • Рейтинг книги:
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Lampi: краткое содержание, описание и аннотация

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In una tempestosa notte di gennaio Laura Shane viene miracolosamente alla luce grazie all’intervento di uno sconosciuto che annuncia il proprio arrivo con un lampo. Il destino però ha in serbo per lei ben più terrificanti pericoli che supererà con l’aiuto del misterioso personaggio. Ma chi è l’enigmatico protettore? Nel giorno del suo tredicesimo compleanno per Laura è pronta un’agghiacciante rivelazione…

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Dean Koontz

Lampi

Nel vagito del neonato si fonde il lamento per i morti.

LUCREZIO

Non ho paura della morte. È solo che non voglio essere lì quando succede.

WOODY ALLEN

Montagna russa: ferrovia in miniatura che corre per ripidissime salite e discese che provocano improvvisi e brevi salti nel vuoto a passeggeri in cerca di forti emozioni.

THE RANDOM HOUSE DICTIONARY

A Greg e Joan Benford.

A volte penso che siate le persone più interessanti che conosciamo. Poi prendo sempre due aspirine e mi corico. Ma il pensiero rimane.

PARTE PRIMA

Laura

Essere amati profondamente da qualcuno da forza; amare qualcuno profondamente da coraggio.

Lao Tzu

1

Una candela nel vento

1

Si scatenò una tormenta, la notte in cui Laura Shane venne alla luce, ma con qualcosa di insolito nell’atmosfera che la gente avrebbe ricordato per molti anni.

Era il 12 gennaio 1955, un mercoledì particolarmente rigido e cupo. Al tramonto, dal cielo minaccioso caddero grossi e soffici fiocchi di neve e gli abitanti di Denver si preparavano a una bufera di neve dalle Montagne Rocciose. Alle dieci, da ovest cominciò a soffiare con violenza un vento glaciale, che scese fischiando e sibilando dalle strette gole, spazzando le pendici boscose. I fiocchi di neve si fecero sempre più piccoli, fino a divenire minuti come granelli di sabbia e come manciate di sabbia risuonarono sospinti dal vento contro le finestre dello studio del dottor Paul Markwell.

Markwell si lasciò cadere pesantemente sulla poltrona della scrivania e cercò di riscaldarsi con uno scotch. Ma la sensazione persistente di gelo che lo affliggeva, derivava da un freddo interiore della mente e del cuore, non certo da qualche corrente d’aria.

Da quando quattro anni prima il suo unico figlio Lenny era morto di poliomielite, Markwell si era gradualmente arreso al vizio del bere. Anche quella sera, in cui doveva essere reperibile in caso di chiamate urgenti dall’ospedale, non esitò a versarsi un secondo Chivas Regal.

Ormai a tutti i bambini veniva somministrato il vaccino del dottor Salk ed era vicino il giorno in cui la poliomielite sarebbe stata definitivamente debellata. Ma Lenny aveva contratto la malattia nel 1951, prima che Salk scoprisse il vaccino. La poliomielite aveva colpito anche i muscoli respiratori e le condizioni del ragazzo si erano aggravate per l’insorgenza di una broncopolmonite. Per Lenny non c’erano state speranze.

Dalle montagne a ovest echeggiò un sordo brontolio, ma Markwell non ci fece neppure caso. Era così immerso in quel suo incessante e cieco dolore, che a volte percepiva solo in modo semicosciente il mondo che lo circondava.

Sulla scrivania teneva una foto di Lenny. Dopo quattro anni, continuava a essere tormentato dal volto sorridente di suo figlio. Avrebbe dovuto mettere via quella foto, invece la lasciava bene in vista perché l’unico modo per attenuare il suo senso di colpa era torturarsi senza requie.

Nessuno dei colleghi si era accorto che aveva preso il vizio del bere perché in effetti non sembrava mai ubriaco. Aveva commesso diversi errori con alcuni pazienti ma senza esiti tragici, solo complicazioni che sarebbero potute insorgere naturalmente e che perciò non furono mai attribuite a trattamenti terapeutici sbagliati. Ma lui sapeva di aver sbagliato e il disgusto che provava per se stesso non faceva che spingerlo verso l’alcol.

Ci fu un altro boato. Questa volta riconobbe il tuono, ma continuò a non farci caso.

Il telefono squillò, ma Markwell non rispose subito. Lo scotch gli aveva reso lenti i riflessi e intorpidito la mente. Alzò il ricevitore solo al terzo squillo. «Pronto?»

«Dottor Markwell? Sono Henry Yamatta.» Era un interno dell’ospedale. Sembrava agitato. «È appena arrivata una delle sue pazienti, accompagnata dal marito, Janet Shane. È già in travaglio perché a causa del maltempo il loro viaggio è stato più lungo del previsto.»

Markwell continuò a bere mentre ascoltava. Poi, compiacendosi del fatto che le sue parole risuonavano ancora distinte, chiese: «È ancora nella prima fase?»

«I dolori sono intensi e insolitamente prolungati. E il muco vaginale presenta tracce di sangue.»

«Ma questo è normale.»

Spazientito, Yamatta ribattè: «No. Questa non è una perdita ematica normale».

Perdite ematiche, o muco vaginale con tracce di sangue, erano un chiaro segno che il parto era imminente. Poiché Yamatta aveva detto che la signora Shane era già a uno stadio avanzato, Markwell si rese conto di aver commesso un errore grossolano sostenendo che si trattasse di una perdita ematica normale.

Yamatta aggiunse: «Non è un’emorragia, ma c’è qualcosa che non va. Inerzia uterina, ostruzione della pelvi, o problemi…»

«Se ci fossero state disfunzioni fisiologiche tali da rendere la gravidanza pericolosa, me ne sarei accorto», replicò Markwell seccato. Ma sapeva bene che avrebbe anche potuto sfuggirgli… se fosse stato ubriaco. «Il dottor Carlson è di turno stanotte. Se ci fossero dei problemi prima del mio arrivo, può…»

«Sono appena arrivati quattro feriti e due sono in gravi condizioni. Carlson è impegnatissimo. Abbiamo bisogno di lei, dottor Markwell.»

«D’accordo, sarò lì fra venti minuti.»

Markwell riappese, finì il suo scotch e prese una mentina dalla tasca. Da quando esagerava con l’alcol portava sempre con sé quelle caramelle. Uscì dallo studio e si diresse verso l’armadio dell’anticamera.

Era ubriaco e stava per andare ad assistere una partoriente. Forse avrebbe anche combinato un disastro, il che significava la fine della sua carriera e la distruzione della sua reputazione, ma non gli importava niente. Anzi, riusciva a pensare a quella tragica eventualità con un gusto quasi perverso.

Si stava infilando il soprabito quando una serie di tuoni fece tremare la casa.

Rabbrividì e guardò fuori della finestra. Un mulinello di neve fitta e gelata vorticò contro il vetro, fermandosi un momento a mezz’aria. Non era la prima volta, quell’anno, che durante una bufera di neve udiva il brontolio dei tuoni, ma di solito erano sempre deboli e distanti, non così minacciosi.

Ci fu un lampo, poi un altro. La neve brillò in modo strano nella luce incostante e la finestra si trasformò ben presto in un specchio in cui Markwell vide riflesso il proprio volto tormentato. Il boato che seguì fu il più fragoroso.

Aprì la porta e osservò incuriosito lo spettacolo offerto dalla bufera. La violenza del vento scagliava la neve sotto il tetto della veranda, ammassandola contro la facciata della casa. Il prato e i rami dei pini erano ammantati di un sottile strato di neve fresca.

Il bagliore accecante di un altro lampo ferì gli occhi di Markwell. Il tuono che seguì fu così tremendo che sembrava provenisse non solo dal cielo, ma anche dalla terra, come se cielo e terra stessero per spaccarsi, annunciando lo scontro finale. Due fulmini intersecantisi squarciarono l’oscurità. Ovunque sembrava che si materializzassero sagome soprannaturali che saltavano, ondeggiavano e si contorcevano. Tutte le ombre degli oggetti venivano così stranamente distorte che il mondo familiare di Markwell acquistò le caratteristiche di un dipinto surrealista: quella luce irreale illuminava sinistramente gli oggetti comuni tanto da alterarne la fisionomia in modo inquietante.

Disorientato da quel cielo in fiamme, dai tuoni, dal vento e da quelle cortina di neve che la bufera sollevava, Markwell per la prima volta, quella sera, si sentì ubriaco. Si chiese quanto di reale ci fosse in quello strano fenomeno elettrico e quanto fosse provocato dalle allucinazioni indotte dall’alcol. Attraversò con cautela la veranda, si fermò in cima ai gradini e appoggiandosi alla colonnina sporse la testa per guardare il cielo.

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