Il signor Takahami arrivò puntuale alle due. Indossava una tuta blu scuro sulla quale era stampato il nome della sua scuola di arti marziali: Forza Silenziosa. Quando venne presentato a Thelma, le disse: «Lei è una donna veramente simpatica. Mi piace molto il suo disco».
Arrossendo per il complimento, Thelma rispose: «E io le posso dire onestamente che avrei sinceramente desiderato che il Giappone vincesse la guerra».
Henry rise. «Io penso che l’abbiamo vinta.»
Thelma si sedette su una sdraio e rimase a osservare Henry che istruiva Laura e Chris nell’autodifesa, sorseggiando un tè freddo.
L’uomo aveva circa quarant’anni, la parte superiore del corpo ben sviluppata e gambe robuste. Era un maestro di judo e karaté e un esperto di boxe e insegnava una forma di autodifesa basata su diverse arti marziali, un sistema che aveva elaborato lui stesso. Due volte la settimana lasciava Riverside e trascorreva tre ore con Laura e Chris.
Il combattimento, che consisteva in calci, pugni, urla, colpi, giravolte, cadute e improvvisi rotolamenti, era condotto in modo da non fare del male. Le lezioni di Chris erano meno faticose e meno elaborate di quelle di Laura ed Henry lasciava al bambino molte pause per riposarsi e recuperare le forze, ma alla fine di ogni lezione Laura era sempre madida di sudore ed esausta.
Quando Henry se ne fu andato, Laura mandò Chris a farsi una doccia, mentre lei e Thelma arrotolavano il materassino.
«Veramente carino», commentò Thelma.
«Chi? Henry? Direi proprio di sì.»
«Magari prenderò qualche lezione di judo o karaté.»
«Oh, ultimamente il tuo pubblico è stato così scontento?»
«Un colpo basso, Shane.»
«Qualsiasi mezzo è giustificato quando il nemico è terribile e spietato.»
Il pomeriggio seguente, mentre Thelma stava sistemando la valigia nel bagagliaio della sua Camaro per far ritorno a Beverly Hills, disse: «Ehi, Shane, ricordi quella prima famiglia in cui fosti mandata dal McIlroy?»
«I Teagel», rispose Laura. «Flora, Hazel e Mike.»
Thelma si appoggiò contro la fiancata della macchina, calda per il sole, vicino a Laura. «Ti ricordi quando ci raccontasti della passione di Mike per giornali come il National Enquirer ?»
«Ricordo i Teagel come fosse ieri.»
«Be’», disse Thelma, «ho pensato molto a quanto ti è successo: questo Custode, il fatto che non invecchi mai, il modo in cui scompare nel nulla e, di riflesso, ho pensato ai Teagel. In un certo senso mi sembra tutto così ironico. Quante volte al McIlroy abbiamo riso alle spalle di quel vecchio pazzo di Mike Teagel. E adesso dove ti ritrovi? Sei la protagonista principale di una storia pazzesca!»
Laura ridacchiò. «Forse farei bene a riconsiderare tutte quelle storie di alieni che vivono nascosti a Cleveland. Che cosa ne dici?»
«Ciò che sto cercando di dire è che… la vita è piena di meraviglie e di sorprese, non tutte piacevoli certamente, e alcuni giorni sono neri come i pensieri della maggior parte degli uomini politici. Ma allo stesso tempo ci sono momenti in cui mi rendo conto che noi tutti siamo qui per una qualche ragione, per quanto enigmatica possa essere. La vita non è priva di senso. Se lo fosse, non vi sarebbe il mistero. Sarebbe monotona, limpida e priva di enigmi come il meccanismo di una macchinetta del caffè.»
Laura scosse la testa.
«Accidenti, ascoltami! Tutto questo discorso complicato per formulare un banale concetto filosofico che, in parole povere, non significa altro che: ‘Coraggio, amica mia’.»
«Tu non sei banale.»
«Mistero», disse Thelma. «Meraviglia. Ci sei in mezzo, Shane, e questa è la vita. Se proprio adesso non c’è altro che oscurità… be’, anche questo passerà.»
Rimasero abbracciate, senza bisogno di dire di più, finché Chris uscì correndo dalla casa con un disegno fatto a matita che aveva preparato per Thelma e che voleva che portasse con sé a Los Angeles. Era una scenetta in cui Tommy Rospo, fermo davanti a un cinema, fissava un cartellone sul quale il nome di Thelma era scritto a caratteri cubitali.
Chris aveva gli occhi pieni di lacrime. «Devi veramente andar via, zia Thelma? Non puoi fermarti un altro giorno?»
Thelma lo abbracciò, poi arrotolò attentamente il disegno come se fosse un’opera d’arte di valore inestimabile. «Mi piacerebbe molto rimanere, Christopher, ma non posso. I miei ammiratori mi stanno reclamando per fare questo film.»
Thelma gli diede un ultimo bacio, entrò in macchina, avviò il motore, abbassò il finestrino e strizzò l’occhio a Laura. «Notizie esotiche, Shane.»
«Mistero.»
«Meraviglia.»
Laura la salutò facendole il segno delle tre dita come nel film Star Trek.
Thelma rise. «Ce la farai, Shane. Nonostante tutte le armi e tutto quello che ho sentito in questi giorni, sono molto meno preoccupata di quanto non lo fossi prima.»
Chris rimase accanto a Laura e guardarono l’auto di Thelma allontanarsi lungo il sentiero finché non scomparve sulla statale.
Il grande ufficio del dottor Vladimir Penlovski si trovava al quarto piano dell’istituto. Quando Stefan entrò nella sala d’aspetto, la trovò deserta, ma udì delle voci provenire dalla stanza accanto. La porta che collegava le due stanze era socchiusa, Stefan la spalancò completamente e vide Penlovski che stava dando istruzioni ad Anna Kaspar, la sua segretaria.
Penlovski alzò lo sguardo, leggermente sorpreso di vedere Stefan. Dovette percepire la tensione sul volto di Stefan, perché si fece cupo e chiese: «C’è qualcosa che non va?»
«È da molto tempo che qualcosa non va», rispose Stefan, «ma ora credo che andrà tutto a posto.» Poi, mentre Penlovski si faceva sempre più serio, Stefan sfilò dalla tasca del camice la Colt Commander con il silenziatore e colpì due volte lo scienziato al petto.
Anna Kaspar saltò in piedi, lasciando cadere la matita e il blocco degli appunti.
Non gli piaceva uccidere le donne, non gli piaceva uccidere nessuno, ma ora non aveva altra scelta. La colpì tre volte. Crollò all’indietro sulla scrivania.
Priva di vita, scivolò giù dalla scrivania e stramazzò sul pavimento. Gli spari non erano stati più rumorosi del sibilo di un gatto arrabbiato e il tonfo del corpo non era stato tale da poter attirare l’attenzione.
Penlovski era accasciato sulla poltrona, gli occhi spalancati e la bocca aperta. Una delle pallottole doveva avergli trapassato il cuore e sulla camicia c’era solo una macchiolina di sangue; la circolazione doveva essersi interrotta in meno di un istante.
Stefan indietreggiò e uscì dalla stanza richiudendo la porta. Attraversò la sala d’aspetto e arrivò sul corridoio.
Il cuore gli batteva all’impazzata. Con quei due omicidi aveva tagliato per sempre i ponti con il suo tempo, con la sua gente. D’ora in poi, l’unica vita che gli era possibile vivere era nella dimensione temporale di Laura. Ora non c’era più ritorno.
Con le mani, e la pistola, sprofondate nelle tasche, s’incamminò nel corridoio verso l’ufficio di Januskaya. In prossimità della porta, vide uscire due colleghi che passandogli accanto lo salutarono. Stefan si fermò per vedere se fossero diretti nell’ufficio di Penlovski. Se così fosse stato, avrebbe dovuto uccidere anche loro.
Quando si fermarono davanti agli ascensori tirò un sospiro di sollievo. Più cadaveri lasciava in giro e maggiori erano le possibilità che qualcuno vi si imbattesse facendo scattare l’allarme che gli avrebbe impedito di puntare il timer sugli esplosivi e di fuggire attraverso la Via del Lampo.
Entrò nell’ufficio di Januskaya, anch’esso preceduto da una sala d’aspetto. Seduta alla scrivania, c’era la segretaria che, come Anna Kaspar, era stata imposta dalla polizia segreta. Alzò lo sguardo e sorrise.
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