«Hai avuto parecchio tempo per pensare a questa faccenda? Hai qualche idea? Chi è questo Custode? Da dove viene?»
«Non so.» Laura aveva un’idea sulla quale aveva concentrato la sua attenzione, ma era troppo folle e inoltre non aveva prove a sostegno della sua teoria. Preferì non esporla a Thelma. «Proprio non saprei che cosa pensare.»
«Dov’è la cintura che ti ha lasciato?»
«Nella cassaforte», rispose Laura, indicando con un cenno del capo una cassaforte ricavata nel pavimento e nascosta sotto il tappeto.
Insieme sollevarono il grosso tappeto, scoprendo la cassaforte, un cilindro con un diametro di trenta centimetri e profondo quaranta. All’interno c’era solo un oggetto e Laura lo prese.
Ritornarono alla scrivania per osservare l’oggetto misterioso sotto una luce migliore.
La cintura, alta dieci centimetri, era di un tessuto nero, elastico, forse nylon, in cui erano intrecciati dei fili di rame che formavano una trama intricata e molto particolare. Data l’altezza, la cintura era dotata di due piccoli occhielli, anch’essi in rame. Inoltre, cucita sulla cintura, proprio alla sinistra degli occhielli, c’era una scatolina grande come un portasigarette — circa dieci centimetri per sette e mezzo e meno di due centimetri di spessore — anch’essa in rame. Non si riusciva a capire come si potesse aprire la scatolina; l’unica caratteristica era un pulsante giallo situato verso l’angolo inferiore sinistro.
Thelma tastò lo strano materiale. «Dimmi ancora quello che ti ha detto sarebbe potuto succederti se avessi schiacciato il pulsante giallo.»
«Mi disse semplicemente di non premerlo e quando gli chiesi perché, mi rispose: ‘Tu non vorresti andare dove ti porterebbe’.»
Rimasero lì, fianco a fianco, gli occhi fissi sulla cintura che Thelma teneva in mano. Erano già passate le quattro e nella casa regnava un silenzio totale.
«Non sei mai stata tentata di premere il pulsante?» domandò Thelma incuriosita.
«No, mai», affermò Laura senza esitazione. «Quando menzionò il luogo in cui avrebbe potuto portarmi… nel suo sguardo lessi il terrore. E io so che vi ha fatto ritorno controvoglia. Non so da dove viene, Thelma, ma non ho frainteso ciò che ho visto nei suoi occhi. Quel posto è a un solo passo dall’inferno.»
Domenica pomeriggio indossarono dei pantaloncini corti e una maglietta, stesero un paio di coperte sul prato dietro la casa e fecero un lungo, ozioso pic nic a base di patate in insalata, polpettine di carne fredda, formaggio, frutta fresca, patatine e dolcetti alla cannella ricoperti di nocciole croccanti. Giocarono con Chris, che si divertì un mondo quel giorno, anche perché Thelma si esibì in una produzione adatta a bambini di otto anni.
Quando Chris vide gli scoiattoli che saltellavano allegramente in fondo al prato, vicino al bosco, volle andare a dargli da mangiare. Laura gli diede un dolcetto e disse: «Fallo a pezzettini e tiraglieli. Non si lasceranno avvicinare troppo. E tu non ti allontanare, capito?»
«Sì, mamma.»
«Non andare fino al bosco. Solo a metà strada.»
Corse via e si allontanò di una decina di metri, un po’ di più di quanto gli aveva ordinato sua madre, poi s’inginocchiò. Staccò dei pezzettini dal dolce e li lanciò agli scoiattoli cercando di farli avvicinare.
«È un bravo bambino», disse Thelma.
«Il migliore», replicò Laura mentre spostava accanto a sé l’Uzi.
«Ma sarà a meno di venti metri da noi», esclamò Thelma.
«Sì, ma è più vicino al bosco che a me.» Laura scrutò le ombre sotto i fitti pini.
Prendendo una manciata di patatine dal sacchetto, Thelma disse: «Non ho mai fatto un pic nic con qualcuno che aveva con sé un fucile mitraglialore. In un certo senso mi piace. Non hai nulla da temere se salta fuori un orso».
«Ed è un inferno anche per le formiche.»
Thelma si distese su un fianco, con la testa appoggiata a una mano, mentre Laura rimase seduta a gambe incrociate, come gli indiani. Le farfalle arancioni, luminose come tanti soli in miniatura, volteggiavano nell’aria calda di agosto.
«Il bambino sembra affrontare abbastanza bene la situazione», commentò Thelma.
«Più o meno», confermò Laura. «Ha passalo un periodo molto brullo. Piangeva sempre ed era inquieto. Ma è passalo. A questa età si adattano e accettano ogni cosa molto velocemente. Ma nonostante le apparenze… ho l’impressione che ci sia in lui una tristezza di fondo che prima non c’era. E che rimarrà sempre.»
«È vero», disse Thelma, «È come un’ombra sul cuore. Ma vivrà e sarà felice e ci saranno momenti in cui non si accorgerà affatto di quell’ombra.»
Mentre Thelma osservava Chris che attirava a sé gli scoiattoli, Laura studiò l’amica. «Ruth ti manca sempre, non è vero?»
«In ogni istante, da vent’anni a questa parte. E a te non manca sempre tuo padre?»
«Certo», rispose Laura. «Ma quando penso a lui, non credo che ciò che sento sia simile a ciò che provi tu. Perché noi ci aspettiamo che i nostri genitori muoiano prima di noi e anche se essi se ne vanno prematuramente, possiamo accettare questo fatto perché abbiamo sempre saputo che prima o poi sarebbe successo. È diverso quando muore una moglie, un marito, un figlio… o una sorella. Non ci aspettiamo che muoiano prima di noi, che muoiano in giovane età. Perciò è più difficile da accettare. Soprattutto, credo, se si tralla di una sorella gemella.»
«Quando ricevo delle buone notizie, intendo delle notizie che riguardano la mia professione, la prima cosa che penso è quanto sarebbe stata felice Ruthie per me. E tu, Shane? Come le la cavi?»
«La notte piango.»
«Questo è salutare ora. Non lo sarà più fra un anno.»
«La notte, mentre sono sveglia, ascolto i battiti del mio cuore e il suono è così triste. Grazie a Dio c’è Chris. Lui dà uno scopo alla mia vita. E poi ci sei tu. Ho te e Chris e siamo una specie di famiglia, non credi?»
«Non solo una specie, noi siamo una famiglia. Tu e io, sorelle.»
Laura sorrise, allungò una mano e scompigliò i capelli di Thelma.
«Ma», disse Thelma, «essere sorelle non significa che puoi prendere in prestito i miei vestiti.»
Nei corridoi e attraverso le porte aperte dei laboratori e degli uffici dell’istituto, Stefan vide i suoi colleghi al lavoro e nessuno di loro mostrò particolare interesse per lui. Prese l’ascensore fino al terzo piano e proprio fuori del suo ufficio incontrò il dottor Wladyslaw Januskaya, pupillo del dottor Vladimir Penlovski e la seconda persona responsabile della ricerca sul viaggio nel tempo, che originariamente era stata chiamata Progetto Falce, ma che ormai già da diverso tempo era conosciuta sotto il nome di Via del Lampo, un nome in codice più appropriato.
Januskaya aveva quarant’anni, dieci anni meno del suo insegnante, ma sembrava più vecchio del vitale ed energico Penlovski. Basso, grasso, quasi calvo, con la pelle chiazzata, due denti d’oro davanti e un paio di occhiali così spessi che i suoi occhi sembravano uova dipinte, Januskaya sarebbe stata una figura comica. Ma la sua fede smodata nello Stato e la dedizione che dimostrava nel lavorare per la causa totalitaria erano sufficienti a neutralizzare il suo potenziale comico; era veramente uno degli uomini più pericolosi coinvolti nel progetto.
«Stefan, caro Stefan», esclamò Januskaya, «già da tempo volevo dirti quanto ti siamo grati per il tuo suggerimento provvidenziale, lo scorso ottobre, che l’energia elettrica che alimenta il tunnel venisse fornita da un generatore autonomo. La tua lungimiranza ha salvato il progetto. Se avessimo continuato ad attingere energia dalle linee elettriche municipali… be’, a quest’ora il tunnel si sarebbe disattivato almeno una dozzina di volte e saremmo rimasti indietro rispetto al programma.»
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