Laura visse in quell’ambiente con grande prudenza, ma non si lasciò mai vincere dalla paura. Quei piccoli delinquenti erano sì pericolosi, ma erano anche patetici e, nel loro atteggiamento e nei loro rituali di violenza, persino buffi. Non trovò nessuno con cui condividere i momenti di tristezza, perciò non fece che riempire il suo diario. In quei limpidi monologhi scritti, si chiuse nel suo guscio mentre attendeva che le Ackerson compissero i tredici anni. Quello fu un periodo molto ricco per lei, in cui ebbe la possibilità di scoprire se stessa e di comprendere meglio quel mondo tragico e farsesco in cui era nata.
Sabato, 30 marzo, mentre si trovava nella sua stanza intenta alla lettura, udì una delle sue compagne, una lagnosa ragazza di nome Fran Wickert, parlare nel corridoio con un’altra ragazza, di un incendio in cui erano rimasti uccisi due bambini. Laura non prestò molta attenzione al discorso, finché non udì la parola «McIlroy».
Un brivido improvviso la percorse, si sentì paralizzare il cuore e le mani. Lasciò cadere il libro e si precipitò nel corridoio, facendo trasalire le due ragazze. «Quando? Quando è avvenuto l’incendio?»
«Ieri», rispose Fran.
«Quanti m-morti?»
«Non molti, due bambini, credo; forse solo uno, ma ho sentito dire che si poteva sentire l’odore di carne bruciata. È questa la cosa più madornale che…»
Afferrando Fran per un braccio, Laura chiese: «Come si chiamano?»
«Ehi, lasciami andare!»
«Dimmi i loro nomi!»
«Non li so. Cristo, che cosa ti succede?»
In seguito Laura non ricordò né di aver lasciato andare Fran, né di essere uscita dall’istituto, ma improvvisamente si ritrovò sulla Katella Avenue, a diversi isolati da Caswell Hall. La Katella Avenue era una strada commerciale e in alcuni punti non c’era neppure il marciapiede, perciò corse dando le spalle alla strada, in direzione est, con il traffico che sfrecciava alla sua destra. Caswell distava circa dieci chilometri dal McIlroy e non era sicura di conoscere tutta la strada, ma fidandosi dell’istinto corse finché non fu esausta, poi camminò finché non fu in grado di correre di nuovo.
La cosa più razionale sarebbe stata rivolgersi direttamente a uno dei responsabili del Caswell e chiedere i nomi dei bambini che erano rimasti uccisi nell’incendio. Ma Laura aveva la strana sensazione che il destino delle gemelle Ackerson fosse legato alla sua decisione di intraprendere il difficile viaggio fino al McIlroy per chiedere di loro. Era sicura che se avesse chiesto informazioni per telefono le avrebbero detto che erano morte, mentre invece, se avesse sopportato la fatica estenuante di quella corsa, avrebbe trovato le Ackerson sane e salve. Era superstizione, ma non poté fare a meno di crederci.
Scese il crepuscolo. Il cielo di fine marzo era screziato di lingue di fuoco e i contorni delle nuvole, sparse qua e là, si erano già incendiati quando Laura arrivò in prossimità dell’istituto. Con sollievo vide che la facciata del vecchio edificio non portava tracce di incendio.
Nonostante fosse fradicia di sudore e tremante per la fatica, e sebbene avesse un tremendo mal di testa, non rallentò quando vide l’edificio intatto, ma proseguì a passo deciso fino alla fine.
Entrando incontrò sei bambini e altri tre li vide sulle scale. Due di loro la chiamarono per nome, ma non si fermò per chiedere loro notizie dell’incidente. Doveva vedere con i propri occhi.
Sull’ultima rampa di scale cominciò a sentire l’odore che l’incendio aveva lasciato: il fetore acre, pungente di cose bruciate e l’odore penetrante, persistente del fumo.
Una volta arrivata in cima, aprì la porta e vide che le finestre del corridoio al terzo piano erano aperte e che al centro erano stati disposti dei ventilatori elettrici, per incanalare l’aria in quella direzione.
La stanza delle Ackerson aveva una porta completamente nuova, di legno grezzo, ma la parete recava i segni evidenti di un incendio. Una nota scritta a mano avvisava del pericolo. Come tutte le altre porte al McIlroy, anche questa non aveva serratura, perciò Laura ignorò l’avviso e spalancò la porta, oltrepassò la soglia e vide ciò che aveva tanto temuto: tutto era distrutto.
La luce proveniente dal corridoio alle sue spalle e dalle finestre non illuminava in modo adeguato la stanza, ma fu sufficiente per vedere che i resti del mobilio erano stati portati via; la stanza era vuota. Il pavimento era annerito dalla fuliggine e bruciacchiato, sebbene strutturalmente apparisse intatto. Anche le pareti erano annerite dal fumo. Le porte degli armadi erano ridotte in cenere, alcuni pezzi di legno ciondolavano dai cardini parzialmente fusi. Entrambe le finestre erano esplose o erano state rotte da coloro che cercavano di sfuggire alle fiamme. Le aperture erano state temporaneamente coperte da teli di plastica trasparente, assicurati al muro con dei chiodi. Fortunatamente per gli altri bambini del McIlroy, il fuoco era divampato verso l’alto, devastando il soffitto. Guardò in alto, verso il solaio, dove grosse travi annerite erano appena visibili nella luce incerta. Apparentemente le fiamme si erano fermate prima di raggiungere il tetto, perciò non poté vedere il cielo.
Respirava a fatica, non solo a causa dell’estenuante corsa, ma perché si sentiva il cuore stretto da una morsa di terrore e ogni volta che inalava quell’aria acre avvertiva un senso di nausea.
Fin dal principio, nel momento stesso in cui dalla sua stanza, al Caswell, aveva sentito parlare dell’incendio, non aveva avuto dubbi sulla causa, anche se non voleva ammetterlo. Tammy Hinsen una volta era stata scoperta con una lattina di benzina e dei fiammiferi, con i quali aveva intenzione di darsi fuoco. Quando aveva saputo di quel progetto di autoimmolazione, Laura aveva capito che le intenzioni di Tammy erano serie, perché quel gesto sembrava proprio la giusta forma di suicidio per lei, un’esternazione del fuoco interiore che l’aveva consumata per anni.
Per favore, Gesù, fai che fosse sola nella stanza, per favore.
Asfissiata da quell’odore opprimente e sconvolta da quello spettacolo di distruzione, Laura lasciò la stanza devastata dal fuoco e uscì in corridoio.
«Laura?»
Alzò lo sguardo e vide Rebecca Bogner. Il respiro di Laura si fece affannoso, ma in qualche modo riuscì a pronunciare i loro nomi con voce rauca: «Ruth… Thelma?»
L’espressione gelida della ragazza negava qualsiasi possibilità che le gemelle fossero uscite illese, ma Laura ripetè quei cari nomi e nella sua voce straziata Rebecca colse una nota patetica, implorante.
«Laggiù», rispose allora, indicando un punto in fondo al corridoio. «La prima porta a sinistra dopo l’ultima stanza.»
Piena di speranza, Laura corse verso la stanza che le era stata indicata. Tre letti erano vuoti, ma nel quarto, illuminata dalla luce di una lampada da tavolo, c’era una ragazza sdraiata su un fianco, la faccia contro il muro.
«Ruth? Thelma?»
La ragazza sul letto si alzò lentamente: era una delle Ackerson, illesa. Indossava un vestito grigio, tutto stropicciato; i capelli erano tutti in disordine; il volto gonfio e gli occhi pieni di lacrime. Si mosse verso Laura, ma si fermò, come se lo sforzo fosse troppo grande.
Laura si precipitò verso di lei abbracciandola.
Stretta in quell’abbraccio, la testa appoggiata alla spalla di Laura, parlò, infine, con la voce straziata dal dolore. «Oh, Shane, come vorrei che fosse toccato a me. Se doveva essere una di noi, perché non io?»
Fino a quando la ragazza non pronunciò le prime parole, Laura pensò si trattasse di Ruth.
Rifiutando di accettare quell’orribile realtà, Laura chiese: «Dov’è Ruthie?»
«Ruthie non c’è più. La mia piccola Ruthie è morta.»
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