La teneva per il braccio, affondando le unghie nella carne. La sollevò da terra, alzandola fino all’altezza dei suoi occhi, poi la inchiodò al muro. I suoi piedi dondolavano nel vuoto.
«Chi è quel bastardo?» Era molto più forte di quanto sembrasse. L’attirò a sé, per poi sbatterla nuovamente con violenza contro il muro, tenendola sempre all’altezza dei suoi occhi. «Dimmelo, dolcezza, altrimenti strappo via il tuo orecchio.»
Poteva arrivare da un momento all’altro. Sì, da un momento all’altro.
Una fitta di dolore le percorse nuovamente la schiena, ma fu in grado di respirare, anche se ciò che inalò fu il suo respiro, acre e nauseante.
«Rispondimi, dolcezza.»
Poteva anche morire aspettando che l’Angelo Custode intervenisse.
Gli sferrò un calcio nei testicoli. Un colpo perfetto. Per tenersi in equilibrio aveva le gambe divaricate e non era abituato ad alcun tipo di reazione, perciò non si rese assolutamente conto di ciò che stava accadendo. Spalancò gli occhi e per un istante le sembrarono umani. Emise un suono sordo, strangolato e lasciò la presa. Laura crollò sul pavimento e Sheener barcollò all’indietro, perse l’equilibrio, rovinò sul tavolo e finì dolorante sul tappeto cinese.
Immobilizzata dal dolore, dallo choc e dalla paura, Laura non riusciva a reggersi in piedi. Però poteva strisciare, strisciare lontano da lui. Freneticamente. Verso la porta della sala da pranzo. Con la speranza di riuscire ad alzarsi in piedi una volta raggiunto il salone. Lui le afferrò la caviglia sinistra. Lei scalciò per cercare di liberarsi. Niente da fare. Era troppo debole. Sheener tenne duro. Si sentì addosso le sue dita gelide, le dita di un morto. Tentò di lanciare un grido, ma le si strozzò in gola. Appoggiò una mano in un punto in cui il tappeto era intriso di latte. Vide il bicchiere rotto. La parte superiore era andata in frantumi, ma la base era ancora intatta, frastagliata da punte affilate, su cui brillavano gocce di latte. Sempre raggomitolato, semiparalizzato dal dolore, l’Anguilla le afferrò l’altra caviglia. Contorcendosi, strisciava verso di lei. Continuava a emettere un suono stridulo, come quello di un uccello. Da un momento all’altro si sarebbe gettato su di lei, immobilizzandola. Laura afferrò il bicchiere rotto e si ferì un dito, ma non sentì nulla. L’uomo lasciò un attimo la presa, ma solo per afferrarla più in alto, sulle cosce. Laura, con la schiena a terra, si muoveva a scatti, dibattendosi: come se ora fosse lei un’anguilla. Rivolse il pezzo di bicchiere rotto contro di lui, non con l’intenzione di ferirlo, ma di tenerlo lontano. L’uomo però si era già sollevato e stava ripiombando su di lei. Le punte acuminate gli penetrarono nella gola. Cercò di strapparsi via quell’arma micidiale e le punte si spezzarono nella carne. Rantolante e perdendo sangue dal naso la inchiodò al pavimento con il peso del suo corpo. Laura cominciò a dimenarsi, lui l’afferrò ancora più forte; il ginocchio che le premeva sull’anca era pesante come un macigno. La bocca era pericolosamente vicina alla sua gola. La morsicò, ma le sfiorò appena la carne. Si dimenò ancora, con più violenza. Dalla gola martoriata uscì un respiro sibilante, rantolante. Laura sgusciò via, lui l’afferrò di nuovo ma lei gli sferrò un calcio. Aveva ritrovato le forze. Il calcio era stato ben assestato. Si trascinò verso il salone, si aggrappò alla colonna della volta e si alzò in piedi. Si voltò indietro, vide che l’Anguilla era ancora accanto a lei e brandiva una sedia come fosse una mazza. La calò su Laura, che riuscì a schivarla ed entrò barcollando nel salone, per raggiungere l’entrata, la porta, una via di salvezza. Sheener lanciò nuovamente la sedia, e questa volta la colpì alla spalla. Laura cadde, rotolò, levò lo sguardo e lo vide sopra di sé. Le afferrò il braccio sinistro e lei si sentì di nuova mancare le forze; macchie scure cominciarono ad annebbiarle la vista. Era perduta. Ma le schegge di vetro nella gola raggiunsero un’altra arteria. Improvvisamente, dal naso gli sgorgò un fiotto di sangue. Le crollò addosso, un peso enorme, terribile, morto.
Non poteva muoversi, riusciva a malapena a respirare e doveva lottare con tutte le sue forze per non perdere i sensi. Mentre era scossa dai singhiozzi, udì la porta aprirsi. Dei passi.
«Laura? Sono arrivata.» Era la voce di Nina, dapprima festosa, poi l’urlo agghiacciante di terrore: «Laura? Oh, mio Dio! Laura!»
Laura fece uno sforzo tremendo per spostare quel corpo morto, ma riuscì a liberarsi solo parzialmente, quanto bastava per vedere Nina, in piedi nell’anticamera.
Per un momento la donna rimase paralizzata dallo choc. Fissava il suo bel salone, quelle tinte delicate, armoniose, deturpate da grandi chiazze cremisi. Poi i suoi occhi viola si posarono di nuovo su Laura e uscì dal suo stato di trance. «Laura, o mio Dio, Laura!» Mosse qualche passo, poi si bloccò di colpo, ripiegandosi su se stessa come se fosse stata colpita allo stomaco. Emise un suono strozzato: «Oh, oh, oh…» Cercò di raddrizzarsi. Il suo volto era contorto dalla sofferenza. Sembrava che non riuscisse a stare in posizione eretta e alla fine piombò sul pavimento senza emettere più alcun suono.
Non poteva accadere tutto così. Non era giusto, dannazione!
Con la forza della disperazione Laura si liberò dal corpo di Sheener e si trascinò velocemente accanto alla madre.
Nina giaceva priva di forze, gli splendidi occhi spalancati, vitrei.
Laura accostò la mano insanguinata al collo di Nina, alla ricerca di una vena che pulsasse. Pensò di averne trovata una. Debole, irregolare, ma sempre una pulsazione.
Tolse un cuscino dalla sedia e lo sistemò sotto la testa di Nina, poi corse in cucina dove i numeri di telefono della polizia e dei vigili del fuoco erano scritti accanto al telefono. Tremante, riferì quanto era successo e diede il loro indirizzo.
Quando appese, sapeva che ogni cosa si sarebbe risolta al meglio, perché aveva già perso suo padre a causa di un infarto, e sarebbe stato troppo assurdo perdere Nina nello stesso modo. La vita aveva dei momenti assurdi, certo, ma la vita in sé non era assurda. La vita era strana, difficile, miracolosa, preziosa, incerta, misteriosa, ma non totalmente assurda. Perciò Nina sarebbe vissuta, perché la sua morte non aveva senso.
Ancora spaventata e preoccupata, ma in un certo senso sollevata, Laura tornò di corsa nel salone, si inginocchiò accanto alla madre e le rimase vicino.
Newport Beach offriva dei servizi di emergenza di prim’ordine. L’ambulanza arrivò nel giro di tre o quattro minuti. I due paramedici erano efficienti e ben attrezzati. Non ci misero molto a pronunciarsi: Nina era morta. E non c’era dubbio che fosse morta nel momento in cui si era accasciata sul pavimento.
Una settimana dopo Laura fece ritorno al McIlroy e otto giorni prima di Natale, la signora Bowmaine riassegnò il posto vacante nella stanza delle Ackerson a Tammy Hinsen. In un insolito incontro privato con Laura, Ruth e Thelma, l’assistente sociale spiegò il ragionamento che stava alla base di quella decisione. «Lo so che pensate che Tammy con voi non sia felice, ma dopotutto sembra che si trovi meglio da voi che in qualsiasi altro posto. L’abbiamo messa in diverse stanze, ma gli altri bambini non riescono a tollerarla. Non so che cosa ci sia in quella bambina che la rende una reietta, ma i suoi compagni finiscono per usarla come fosse un punching-ball.»
Una volta tornate nella loro stanza, prima che Tammy arrivasse, Thelma si sistemò sul pavimento, le gambe ripiegate nella posizione del loto, con le caviglie che poggiavano contro le anche. Aveva cominciato a interessarsi di yoga quando i Beatles si erano accostati alla meditazione orientale e sosteneva che quando finalmente avrebbe incontrato Paul McCartney (destino inconfutabile questo), sarebbe stato bello avere qualcosa in comune, «e questo sarà possibile solo se posso parlare con una certa autorità di questo cacchio di yoga».
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