Invece di concentrarsi nella meditazione, Thelma disse: «Che cos’avrebbe fatto quella caprona se le avessi detto: ‘Signora Bowmaine, i bambini non sopportano Tammy perché si è lasciata abbindolare dall’Anguilla, e non solo, lo ha anche aiutato a individuare delle altre bambine vulnerabili, perciò, per quel che ne pensano loro, lei è il nemico’. Che cos’avrebbe fatto quella bestia della Bowmaine se le avessi spiattellato tutto questo?»
«Ti avrebbe detto che eri una brutta bertuccia bugiarda», sentenziò Laura lasciandosi cadere sul letto.
«Senza dubbio, e poi mi avrebbe fatto arrosto. Ma ci pensi a quant’è grossa quella donna? Si allarga di settimana in settimana. Qualsiasi persona di quella stazza è pericolosa, un onnivoro famelico capace di mangiarsi il primo bambino che gli capita vicino, ossa e tutto quanto, e con la stessa naturalezza con cui ingollerebbe una pinta di birra.»
Ruth era alla finestra e guardava i bambini che giocavano nel cortile: «Non è giusto il modo in cui trattano Tammy».
«La vita non è giusta», decretò Laura.
«La vita non è tutta rose e fiori», aggiunse Thelma. «E poi, per carità, Shane, non cercare di filosofeggiare quando ciò che hai da dire sono solo delle banalità. Lo sai bene che qui odiamo le banalità solo leggermente meno di quanto odiamo accendere la radio e sentire Bobbie Gentry che canta Ode to Billy Joe. »
Quando Tammy arrivò, un’ora più tardi, Laura era nervosa. Dopotutto aveva ucciso Sheener e Tammy era sempre stata succube di lui. Si aspettava che fosse furiosa, invece la bambina la salutò con un sorriso triste, sincero e timido.
Dopo qualche giorno divenne chiaro che Tammy considerava la perdita delle attenzioni dell’Anguilla con un dispiacere perverso, ma anche con sollievo. Quel temperamento feroce che aveva rivelato quando aveva distrutto i libri di Laura si era spento. Era nuovamente la bambina slavata, ossuta e sciatta che Laura aveva visto quando era arrivata al McIlroy, più un’apparizione che una persona reale, un essere che da un momento all’altro poteva dissolversi in fumoso ectoplasma e disperdersi completamente alla prima folata di vento.
Dopo la morte dell’Anguilla e di Nina Dockweiler, Laura dovette sottoporsi a delle sedute di mezz’ora con il dottor Boone, uno psicoterapeuta che esercitava al McIlroy ogni martedì e sabato. Boone non riusciva a capire come Laura potesse superare lo choc dell’aggressione di Willy Sheener e la morte tragica di Nina senza alcun danno psicologico. Era stupito di fronte all’analisi articolata che Laura faceva dei propri sentimenti e ai termini con cui esprimeva la sua presa di coscienza rispetto agli eventi accaduti a Newport Beach. Il fatto di riuscire a superare tutto, ad assorbire qualunque cosa la vita le presentasse, le veniva dal fatto che era orfana di madre, che aveva perso suo padre e che aveva affrontato numerose situazioni drammatiche, ma soprattutto perché aveva beneficiato dell’amore immenso di suo padre. Tuttavia, anche se riusciva a parlare di Sheener con distacco e di Nina più con affetto che con tristezza, lo psichiatra giudicò il suo atteggiamento come puramente apparente e non reale.
«Quindi sogni Willy Sheener?» le chiese nella piccola stanza riservata.
«Ho sognato di lui solo due volte. Ovviamente erano incubi. Ma tutti i bambini li hanno.»
«Ma sogni anche di Nina. Anche quelli sono degli incubi?»
«Oh, no! Sono dei sogni bellissimi.»
Lo psichiatra sembrò sorpreso da quella risposta. «Quando pensi a Nina provi tristezza?»
«Sì. Ma anche… ricordo quanto era buffo andare in giro per negozi con lei, a provare i vestiti. Ricordo il suo sorriso e la sua risata.»
«E sensi di colpa? Non ti senti in colpa per ciò che è accaduto a Nina?»
«No. Forse Nina non sarebbe morta se io non mi fossi trasferita da loro e non avessi trascinato con me Sheener, ma non posso sentirmi in colpa per questo. Ho fatto del mio meglio per essere una buona figlia per loro e loro erano contenti di me. Ciò che è accaduto è che la vita ci ha tirato addosso un’enorme torta alla crema e questo non è colpa mia; non si può mai sapere quando ti tirano una torta alla crema. Se si vede arrivare la torta non c’è più il divertimento.»
«Torta alla crema?» chiese il dottore al colmo della perplessità. «Tu consideri la vita come una farsa grossolana? Come i Three Stooges?»
«In parte.»
«Allora la vita è solo un gioco?»
«No. La vita è una cosa seria e un gioco allo stesso tempo.»
«Ma come può essere?»
«Be’, se non lo sa lei», replicò Laura. «Dovrei essere io a farle questa domanda.»
Riempì molte pagine del suo diario con osservazioni che riguardavano il dottor Boone. Del suo ignoto Custode, tuttavia, non scrisse nulla. Cercava di non pensare a lui. L’aveva trascurata. Aveva cominciato a dipendere da lui; i suoi sforzi eroici per proteggerla l’avevano fatta sentire speciale e quella sensazione l’aveva aiutata ad affrontare la vita da quando suo padre era morto. Ora si sentiva sciocca per essersi aspettata un aiuto da qualcuno che non fosse lei stessa. Aveva ancora il biglietto che le aveva lasciato sulla scrivania, dopo i funerali del padre, ma non lo aveva più riletto. E, giorno dopo giorno, gli interventi che il suo Custode aveva fatto nella sua vita divennero sempre più simili a fantasie che dovevano essere sradicate.
Il pomeriggio di Natale tornarono nelle loro stanze con i regali che avevano ricevuto dagli istituti di beneficenza e dalle dame di carità. Finirono per cantare festosamente canzoni natalizie e grande fu il loro sconcerto quando Tammy si unì a loro. Cantava con una vocina bassa, titubante.
Nelle due settimane che seguirono smise quasi completamente di mangiarsi le unghie. Era solo un po’ più espansiva del solito, ma sembrava più calma, più soddisfatta di se stessa di quanto non lo fosse mai stata.
«Da quando non ha più maniaci che le girano attorno e che le danno fastidio», osservò Thelma, «forse si sente di nuovo pulita.»
Venerdì, 12 gennaio 1968, Laura compiva tredici anni, ma non festeggiò il compleanno; non riusciva a trovare alcuna gioia in quella ricorrenza.
Il lunedì fu trasferita dal McIlroy al Caswell Hall, un istituto che ospitava ragazzi più grandi, situato a una decina di chilometri di distanza, ad Anaheim.
Ruth e Thelma l’aiutarono a portare le sue cose nell’ingresso. Laura non avrebbe mai immaginato di provare un tale dispiacere nel lasciare il McIlroy.
«Verremo in maggio», la rassicurò Thelma. «Il 2 maggio compiamo tredici anni e saremo di nuovo insieme.»
Quando arrivò l’assistente sociale dell’istituto Caswell, Laura la seguì con riluttanza.
L’istituto Caswell era un vecchio liceo nel quale erano stati ricavati dormitori, sale di ricreazione e uffici per le assistenti sociali. L’atmosfera risultava perciò più istituzionale di quella al McIlroy; ma non solo, il Caswell era anche molto più pericoloso del McIlroy perché i ragazzi erano più grandi e perché molti di loro erano già dei delinquenti potenziali. All’interno dell’istituto circolavano marijuana e LSD, e gli scontri fra i ragazzi, persino fra le ragazze, non erano rari. Come al McIlroy, anche qui si formavano dei gruppi, alcuni dei quali così pericolosamente chiusi in se stessi da diventare delle vere e proprie bande. Il furto era prassi comune.
Nel giro di qualche settimana Laura realizzò che vi erano due tipi di sopravvissuti nella vita: quelli che, come lei, avevano trovato la forza di reagire nell’immenso amore che avevano ricevuto, e coloro che, non avendo mai conosciuto l’amore, avevano imparato a crescere nell’odio e nel sospetto, pensando alla vendetta. Di fronte ai sentimenti si mostravano sprezzanti, ma allo stesso tempo invidiosi di non poterli vivere e provare.
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