Michael Palmer - Sindrome atipica

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Sindrome atipica: краткое содержание, описание и аннотация

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Il dottor Rutledge ha la certezza che ci sia qualcosa di sospetto nelle morti dei suoi pazienti. Troppe banali influenze degenerate in incomprensibili complicanze non hanno lasciato scampo ai malati. L’uomo nutre un sospetto: che nell’evoluzione fatale delle malattie sia coinvolto il giacimento di carbone, la cui aria nera copre il cielo della sua città, nel West Virginia. Ma presto il dottore capisce che le sue indagini lo stanno portando a scoprire segreti molto più pericolosi di quanto potesse immaginare.

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Perché? La domanda s’impresse nella sua mente. Perché?

«Mi sembra vada tutto bene», commentò Matt. «Ora vado a scrivere alcune prescrizioni e a gettarmi un po’ d’acqua in faccia. Poi tornerò.»

Uscito Matt, l’infermiera Julie sistemò le lenzuola e asciugò il viso e le mani di Nikki.

«Guarirà perfettamente», osservò. «Il dottor Rutledge non avrà l’aspetto di un professore universitario di medicina, ma, mi creda, è un medico fantastico, il migliore di questo ospedale. Ho sentito che lei è di Boston. Ecco, lui è cresciuto qui, ma ha studiato a Harvard. È andato al lago in ambulanza e l’ha intubata là.»

Nikki le fece sapere di avere capito alzando debolmente il pollice.

Dottoressa. Proprio prima che il grassone elegantemente vestito l’aggredisse, l’aveva chiamata «dottoressa». Chi poteva averglielo detto? Quei due non avevano avuto alcuna intenzione di derubarla o di violentarla. Volevano ucciderla.

Perché?

Matt tornò accanto al suo letto dopo essersi lavato e sbarbato e avere radunato le cose che gli sarebbero servite per Lewis Slocumb. Le ore di sonno gli avevano giovato e, almeno per il momento, si sentiva concentrato e pieno di energie. Ieri aveva avuto intenzione di tornare alla fattoria degli Slocumb per sostituire il tubo di fortuna dopo poche ore di lavoro all’ospedale, ma era passata un’intera giornata. Ebbene, pensò, non poteva fare di più e sperò che Frank Slocumb avesse avuto il buon senso di portare il fratello in ospedale se fossero sorte complicazioni.

Nikki Solari pareva sveglia e più vivace. Le radiografie non avevano rivelato una polmonite e i livelli di gas del sangue erano ottimi. Era ora di mantenere la promessa e di togliere il tubo. Forse così, le domande su ciò che era successo a Crystal Lake avrebbero trovato risposta. Un mistero era già stato risolto, e cioè lo strano sogno in cui si era trovato Matt. Sul piede sinistro della dottoressa Solari vi era il tatuaggio, arancione e nero, di un mostro Gila. Matt l’aveva notato mentre le faceva una prima visita, ma era stato troppo impegnato a cercare di salvarle la vita per prenderlo in considerazione.

La donna dalle eleganti mani dalle lunghe dita, che aveva pensato potesse essere una ceramista, era un coroner. E il coroner, che suonava musica bluegrass, aveva un mostro Gila nero e arancione tatuato sul piede. Per quanto popolari fossero diventati i tatuaggi, non erano ancora molto comuni tra moderati studenti di medicina e medici. Si chiese se fosse anche tanto anticonformista da fare uso di droghe o di smerciarle. Era forse per quello che era stata inseguita nei boschi vicino alla Niles Ledge?

Matt rifletté su questa possibilità mentre si preparava a rimuovere il tubo del respiratore. Visualizzò anche il suo tatuaggio, inciso sul braccio, un ricordo permanente e continuo d’amore e perdita. No, decise, fissando gli occhi espressivi di Nikki Solari, quale che fosse il significato di quello strano tatuaggio, non aveva nulla a che fare con le droghe.

La tecnica di rimozione del tubo endotracheale era semplice quanto le possibili complicazioni della procedura erano pericolose. Aspirare la trachea, sgonfiare il palloncino, costringere la paziente a tossire ed estrarre il tubo. Semplice. In agguato nell’ombra, tuttavia, vi era lo spettro di una contrazione riflessa della laringe, tanto forte da chiudere il condotto dell’aria e tanto stretta da rendere quasi impossibile il reinserimento di un tubo respiratorio.

Matt non aveva mai eseguito una tracheotomia d’urgenza, ma aveva a portata di mano tutto l’occorrente. In quel momento non c’era nulla al mondo che desiderasse fare meno volentieri.

«Dottoressa Solari, siamo pronti», l’avvisò.

Nikki annuì e gli diede un debole segno di via. Una donna forte, pensò Matt. Qualsiasi altra cosa fosse, comunque era in gamba.

«Bene», disse. «So che non sarà piacevole, ma dobbiamo farlo. Aspirazione, per favore, Julie.»

L’infermiera infilò un sottile catetere d’aspirazione dietro la punta del tubo nella trachea di Nikki, che reagì con un violento accesso di tosse mentre le lacrime le riempivano gli occhi e colavano lungo le guance.

«Mi spiace veramente», dichiarò Matt, sgonfiando il palloncino sul tubo, «ma è meglio togliersi alla svelta questo pensiero. Lei deve solo trarre un bel respiro e tossire.»

Nikki obbedì. Un leggero strattone e il tubo era fuori. L’infermiera stava per iniziare ad aspirare la bocca e la gola di Nikki, ma lui le spinse via la mano.

«Grazie», gracchiò Nikki.

L’infermiera le infilò sopra la bocca e il naso una maschera in polistirene trasparente. Per un minuto, per un altro minuto nessuno parlò, mentre Nikki prendeva lunghe e gradite sorsate d’aria umidificata e ricca di ossigeno. Il livello d’ossigeno del sangue, misurato dall’ossimetro applicato attorno alla punta del dito, era buono e il ritmo del battito cardiaco, visualizzato sul monitor, regolare. Non vi fu alcuna importante contrazione laringea.

«Sta bene?» domandò Matt.

«È stato tremendo», rispose Nikki. «Non è certo il modo di salutare un nuovo paziente. Da dove vengo io, i medici iniziano di solito chiedendo quale è l’agenzia di assicurazione.»

Venne abbassata di nuovo la luce nella stanzetta dell’unità di Terapia Intensiva.

L’infermiera era andata a prepararsi per un altro ricovero, un paziente che con ogni probabilità avrebbe preso il posto di Nikki in quella stanza. Esitante, appisolandosi ogni pochi minuti, Nikki parlò del finto incidente sulla strada, del cloroformio, degli spari e dell’inseguimento nel bosco. Non aveva alcun ricordo degli eventi immediatamente successivi al suo tuffo nel Crystal Lake.

Quel racconto spaventoso avvinse totalmente Matt, ma non più di quanto lo avvincesse la donna che stava parlando. Esausta e chiaramente alle prese con emicrania, vertigini e altri effetti del colpo subito, Nikki, che gli aveva chiesto di darle del tu, rivelava una forza d’animo, un’intelligenza e un senso dell’umorismo che neppure il suo attuale stato riusciva a diminuire.

Matt aveva un sacco di domande e, senza alcun dubbio, Grimes ne avrebbe avute altrettante. Per il momento, tuttavia, non aveva alcun desiderio di affrontare il poliziotto. Avrebbe chiamato la stazione di polizia solo quando lei fosse stata ben sveglia, nel frattempo rimase tranquillamente seduto in attesa, mentre lei riposava. Si sorprese nel rendersi conto che stava esaminando il suo volto. Come mai lo attraeva tanto? Non aveva assolutamente nulla che gli ricordasse la donna che aveva amato per tanta parte della sua vita. Tanto Ginny era solare e ricordava la sabbia della spiaggia, tanto Nikki era lunare e ricordava l’acqua scura e ferma di un lago di notte. La bocca di Ginny era innocente e infantile, quella di Nikki sensuale e piena. Da quando Ginny era morta, di tanto in tanto era stato con qualche donna, ma nessuna l’aveva attratto in questo modo. Si sentì strano, imbarazzato e un po’ infedele. Che stava facendo, paragonando e contrapponendo questa donna a Ginny?

Che quei ricordi ti rammentino quanto la vita può essere di nuovo splendida. Non erano state quelle le parole di Mae?

In quel momento, la voce che tanto spesso lo infastidiva con frasi simili gli ricordò che lui era il suo medico. Un coinvolgimento sentimentale di un medico con il suo o la sua paziente era vietato non solo dal giuramento di Ippocrate, ma anche dalle leggi della maggior parte degli stati. Per troppi medici, un simile coinvolgimento aveva finito per essere una scorciatoia verso un lavoro impiegatizio.

«Ehi, ancora qui?» chiese Nikki.

«Io… ecco… devo essermi appisolato.»

«Di nuovo?»

«All’università ero campione di pisolini.»

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