Michael Palmer
Sindrome atipica
Arrivare alla fine di un romanzo e sapere che presto sarà nelle librerie e nelle case di tutto il mondo mi spinge sempre, e con piacere, a riflettere sull’aiuto ricevuto per giungere a questo punto.
Jane e Don, grazie per essermi stati sempre vicini, passo dopo passo.
Bill Massey, grazie per avere rivisto il manoscritto con tanta perizia. Nita e Irwyn, Andrea Nicolay, Kelly Chian e tutti gli altri della Bantam Books, grazie per avere guidato il libro lungo il difficile cammino che porta alla pubblicazione.
Tenente Cole Cordray, dottor Stanton Kessler, dottor Pierluigi Gambetti, dottor Erwin Hirsch, Rick Macomber, Barbara Loe Fisher e Kathi Williams, grazie per la vostra assistenza tecnica. Bill Wilson e dottor Bob Smith, grazie per ciò che avete dato a me e a tanti altri.
Daniel, il sito web e le tue idee sono stati un dono del cielo; Mimi, Matt e Beverly, grazie per le letture.
E Luke, splendido, magico Luke, grazie per avere capito che a volte papà doveva dire: «Giochiamo dopo».
Tutto era iniziato con un mal di gola.
Nattie Serwanga ricordava il momento esatto. Stava cenando con suo marito Eli, quando, inghiottendo dei fagioli, aveva provato un certo dolore. Stavano discutendo se sarebbe stato più giusto chiamare la figlia Nadine o Kolette. Quel fastidio non poteva essere che l’inizio di un raffreddore, aveva pensato. Nient’altro.
Malgrado tutte le cure dei medici della clinica, il mal di gola era peggiorato. Ora, nove giorni dopo quel primo senso di irritazione, Nattie sapeva di essere ammalata, veramente ammalata. Glielo diceva la sorda emicrania, glielo dicevano i brividi e i sudori e quel gonfiore in gola che gli antibiotici non erano riusciti a risolvere. E alle tre di quel mattino aveva pure iniziato a tossire.
Dall’altra parte del bancone con la ribalta in vetro rialzata, i bambini dell’asilo dell’ospedale attendevano in fila il pranzo. Polpettine di pollo e spaghetti. Budino per dessert.
«Ciao, Nattie Smattie.» «Prima io, Nattie. Prima io.» «Puah, di nuovo spaghetti!»
Strizzando l’occhio a un adorabile bambino di quattro anni di nome Harold, Nattie riuscì a deglutire alcune gocce di saliva nonostante il bruciore in gola e gli riempì il piatto. Un attimo dopo, senza avere neppure il tempo di alzare la mano, venne scossa da un attacco di tosse violento e doloroso e non poté evitare di spruzzare goccioline di saliva sul contenuto dei vassoi di fronte a lei. Barcollò all’indietro, ma riuscì a riprendersi prima di cadere. Ogni colpo di tosse le infilava un chiodo di dodici centimetri nel cervello.
«Dannazione», borbottò, riprendendo l’equilibrio. Era forte, anzi, resistente come l’acciaio, diceva sempre una delle suore. Ma anche questa infezione era tenace. Istintivamente fece scivolare le mani sotto il grembiule e le premette contro il ventre. Per alcuni tremendi, vuoti secondi non sentì nulla, poi un forte colpo a destra, ripetuto immediatamente a sinistra. Malgrado il mal di testa, la tosse e i carboni ardenti in gola, Nattie Serwanga sorrise.
A quarant’anni, sposata da sette, aveva pensato che il suo triste destino fosse quello di rimanere senza figli. Eli, che veniva da una famiglia di dieci fratelli, desiderava disperatamente dei bambini. Aveva perso, tuttavia, ogni speranza e aveva iniziato a parlare di accogliere in casa un bambino in affido, o addirittura di adottarne uno. Poi il miracolo.
«Tutto bene, Nattie?»
La sorvegliante, Peggy Souza, la stava fissando, preoccupata. Questa volta, Nattie dovette sforzarsi di sorridere. Tra le scapole si era materializzato un dolore acuto.
«Sto… sto bene», riuscì a dire. «È solo un raffreddore che non vuole andarsene. Sono stata dall’ostetrico, due volte.»
«Ti ha prescritto qualcosa?»
«Prima della pemcillina, poi qualcosa di più forte.»
Decise di non riferire che il medico le aveva consigliato di farsi vedere da uno specialista in malattie infettive, se non fosse migliorata rapidamente, e che le aveva posto un sacco di domande sul viaggio che aveva fatto con Eli in Sierra Leone dalla famiglia del marito.
«Vuoi andare a casa?»
Nattie indicò con la mano la folla dall’altra parte del bancone. Dietro i bambini vi erano ora anche medici e infermiere.
«Quando la ressa sarà diminuita, forse.»
Per il viaggio in Africa aveva utilizzato gli ultimi giorni di ferie e ora stava risparmiando quelli di malattia per sfruttarli assieme al congedo di maternità. Con un po’ di fortuna avrebbe lavorato fino all’ultima settimana e poi si sarebbe presa almeno tre mesi di congedo. Ora però non poteva proprio assentarsi.
«Perché allora», suggerì Peggy, «non ti metti una mascherina chirurgica finché non potrai andartene? Era proprio una brutta tosse, la tua.»
Nattie si girò per non far vedere a Peggy come si arrabattava con i lacci della mascherina.
Che diavolo mi sta succedendo?
I successivi dieci minuti furono un ricordo sfocato di dolore e tosse malamente soffocata. Nattie riuscì, tuttavia, a servire i bambini e anche una parte dei dipendenti, ognuno dei quali, come ben sapeva, non aveva quasi tempo per il pranzo. Ora, oltre al dolore incessante, stava provando spasmi al basso ventre.
Ti prego, Signore, abbi cura della mia bambina. Fai che non le succeda niente.
«Nattie?… Nattie!»
«Eh? Oh, scusami, Peggy. Ero distratta.»
«Te ne stavi lì, a fissare il vuoto. Penso che per oggi tu debba smettere e… Nattie, guarda dalla mia parte.»
«Cosa?»
«I tuoi occhi. Sono chiazzati di sangue.»
«Che stai dicendo?»
«Il bianco degli occhi. È tutto… come coperto di macchie di sangue. Nattie, faresti bene a correre immediatamente da un medico.»
Uno spasmo più doloroso degli altri le impedì di rispondere. Colta dal panico, Nattie annuì, quindi si avviò il più velocemente possibile verso il bagno.
Il volto che la fissò dallo specchio era mostruoso. Da sotto il berretto in carta, ciocche di capelli color ebano appiccicate sulla fronte dal sudore. Il bianco degli occhi velati, quasi senza vita, era parzialmente nascosto da chiazze d’un rosso brillante. Slegò i lacci superiori della mascherina e la lasciò cadere sul petto. L’interno, spruzzato di sangue, assomigliava a qualche disgustosa opera di arte moderna.
Un altro spasmo dal basso, una lancia ardente che saliva dentro di lei.
Oh, che male, che male.
Si trascinò nel gabinetto. I vestiti erano inzuppati di sudore. Un crampo al ventre fu immediatamente seguito da una diarrea esplosiva.
Eli… oh, amore, sto tanto male…
Natile si rimise in piedi a fatica. Nella tazza, un orribile miscuglio di feci e sangue coagulato. Altro sangue. Riusciva a pensare solo alla bambina. Cercò di nuovo di sentirla scalciare, ma tremava troppo per riuscire a capirlo. Eli avrebbe saputo che cosa fare, pensò. Era lui quello calmo. Rovistò nella tasca alla ricerca di qualche monetina per telefonargli. Niente. Il telefono nell’ufficio di Peggy. Avrebbe potuto chiamarlo da lì.
Barcollando, sbilanciata dalla gravidanza, Nattie avanzò piano piano sostenendosi alla parete. Il sudore le colava negli occhi e gocciolava dal naso. Per due volte, fu fermata da attacchi di tosse da spezzarle le costole. La mano e la parete erano macchiate di rosso.
«Nattie?… Nattie, sdraiati immediatamente! Lì dove sei. Chiamo il pronto soccorso. Mio Dio, guardatela!»
La voce di Peggy pareva riecheggiare attraverso un lungo tunnel.
«La mia bambina…»
Un dolore atroce le esplose in testa e Nattie cadde su un ginocchio. Una luce bianca le inondò gli occhi. Sentì l’intestino e la vescica rilasciarsi, mentre il collo le si tendeva all’indietro. Sapeva che stava cadendo, ma non poteva farci nulla.
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