Svoltò a nord, ripercorrendo la stretta strada a due corsie che l’avrebbe portata alla Statale 29. La strada, che serpeggiava attraverso il fitto bosco, era deserta, proprio come lo era stata al mattino entrando in città. Nikki s’infilò un berretto blu dei Red Sox per tenere a posto i capelli e aprì il tettuccio e il finestrino. La luce del sole filtrava attraverso le cime degli alberi, screziando la pavimentazione stradale. Dietro una secca curva vide una macchina ferma sulla stretta banchina. Un uomo che indossava jeans e una T-shirt gialla era a faccia in giù sulla strada. Un altro, di costituzione robusta che indossava un abito scuro, era inginocchiato accanto a lui. Da una immediata valutazione della scena, Nikki immaginò che l’uomo avesse investito un pedone. Mentre si avvicinava, il presunto investitore alzò lo sguardo, quindi si drizzò e cominciò a farle cenni con la mano. Nikki si fermò, esaminando il terreno attorno alla vittima alla ricerca di sangue.
L’uomo, sulla trentina e chiaramente sconvolto, corse al finestrino.
«Io… non l’ho visto. Ho svoltato l’angolo ed era lì. Ha un telefono cellulare?»
«Respira?»
«Io… credo di sì.»
Nikki scese dall’auto e si affrettò verso l’uomo immobile, prevedendo il peggio. Niente sangue, nessuna ferita. C’era un leggero saliscendi del petto, stava decisamente respirando. Non aveva alcuna intenzione di farlo rotolare sul fianco senza avergli prima immobilizzato il collo. S’inginocchiò accanto a lui, gli scrutò la faccia e allungò la mano per controllargli il polso. In quell’attimo, lui si girò sul fianco e, nello stesso momento, l’altro, in piedi dietro di lei, l’afferrò violentemente per i capelli e le chiuse naso e bocca con una pezza. Una pezza imbevuta di una sostanza che conosceva anche troppo bene: cloroformio.
«Ciao, ciao, dottore», la schernì l’uomo.
Durante l’anno di internato in chirurgia, prima di passare a patologia, Nikki si era guadagnata il soprannome di «Cubetto», di ghiaccio naturalmente, grazie alla sua assoluta freddezza e padronanza di sé anche di fronte alle emergenze mediche più terribili. Non aveva mai potuto spiegare interamente quella che sembrava una caratteristica innata, ma una volta controllò le sue pulsazioni dopo avere salvato un paziente eseguendo una tracheotomia d’urgenza. Cinquantotto.
«Penso di essere semplicemente una persona molto logica», era stata la spiegazione che aveva dato una volta a un amico medico. «E anche molto positiva. Una volta avviata una situazione, critica o no, mi concentro su ciò che devo fare e quasi mai su ciò che succederebbe se fallissi.»
La zaffata di cloroformio diede a Nikki tre secondi prima che l’uomo impeccabilmente vestito le incollasse la pezza sulla bocca. Come con le urgenze in ospedale, le sue reazioni in quei tre secondi parvero automatiche, mentre di fatto erano il prodotto di un certo numero di rapidissime osservazioni e deduzioni.
Cloroformio, inspira profondamente e trattieni il fiato!… Movimenti rapidi, decisi da parte della cosiddetta vittima, è una trappola… Ciao ciao, dottore, sa chi sono! Questa non è un’aggressione per rapina casuale. Cercare di implorarli, di indurli a chiacchiere a non fare ciò che hanno intenzione di fare sarebbe inutile…
Per tre volte Nikki aveva seguito dei corsi di autodifesa per donne, e per tre volte li aveva abbandonati frustrata, imbarazzata e un po’ spaventata da quanto avesse già dimenticato. C’erano, tuttavia, tre regole ricorrenti che i corsi avevano permanentemente impresso nella sua mente: fate qualcosa alla svelta; mirate ai testicoli, al naso o alle ginocchia; e, il più presto possibile, datevela a gambe. Ancora inginocchiata, la schiena rivolta al massiccio aggressore, Nikki alzò il pugno davanti agli occhi e colpì con il gomito nell’inguine dell’uomo con tutta la forza che riuscì a radunare. Dai polmoni dell’uomo vi fu un’esplosione di aria. Grugnì, la lasciò andare, barcollò all’indietro, quindi cadde sul sedere come un sacco di grano gettato da un camion. Lo strofinaccio imbevuto di cloroformio volò di lato. L’esile uomo dalla T-shirt gialla si stava rimettendo in piedi, ma Nikki fu più veloce. Gli tirò un calcio sotto il mento mentre si stava drizzando, facendogli sbattere i denti e mandandolo di nuovo a gambe all’aria. Si girò e, attraversata di corsa la strada, s’infilò nel bosco.
«Prendila, Verne!» gridò il più grosso, con un accento diverso da quello montanaro cui si era abituata quel giorno. «Per l’amor di Dio, sparale e basta!»
«Merda, Larry, mi ha rotto un dente. Me lo ha spezzato in due.»
Nikki si era già inoltrata di parecchi passi nel bosco, quando osò lanciare un’occhiata alle spalle. Larry, il signor Abito Serio, era malfermo sulle gambe, ma in piedi. Aveva lasciato cadere la giacca, rivelando un torace grande come una Volkswagen. Il sole illuminava la camicia bianca, mettendo in evidenza una fondina a sinistra e scure macchie di sudore sotto braccia che parevano prosciutti. Verne, pure lui in piedi, sembrava meno stordito. Aveva tirato fuori una pistola a canna cortissima dalla cintola e stava per attraversare la strada e inseguirla, fregandosi ancora la mascella. Sparò una volta, ma Nikki si stava lanciando nella boscaglia e neppure capì se il colpo fosse vicino o no.
Questi uomini sanno chi sono e cercano di uccidermi! gridò la sua mente. Muoviti! Corri!
Atterrita e disorientata, corse avanti, cercando di dare un senso alla situazione e di formulare un piano. A suo favore c’era il fatto di essere molto più in forma di Larry e almeno quanto Verne. Inoltre, stava scappando per salvarsi.
L’aspetto sfavorevole era evidente: due uomini armati, che conoscevano la zona, arrabbiati come bestie e decisi a ucciderla. Brutta situazione. Sentì comunque che riusciva a mantenere una certa calma e a combattere il panico.
«Taglia da quella parte!» sentì Verne gridare. «Se non la becco prima, presto uscirà dalla proprietà. Impediscile di tornare indietro.»
Nikki tenne le mani davanti agli occhi per evitare di essere colpita dai rami. La città era a parecchi chilometri alla sua sinistra. Alla sua destra, da ciò che ricordava, non vi era nulla fino alla strada principale, a forse sedici chilometri di distanza. Verne le era parso preoccupato che tornasse indietro tra lui e Larry, per cui forse era proprio quello che doveva fare. Scartò subito quell’idea. Le probabilità di venire acciuffata da uno dei due mentre tornava verso la strada erano troppo alte, specialmente senza alcuna garanzia che, anche se ce l’avesse fatta, sarebbe poi passata un’automobile. Doveva continuare a correre in avanti, cercando un posto dove nascondersi fino al calare del buio. Solo allora sarebbe potuta tornare a Belinda.
Con un piano, per quanto debole, stabilito, si appiattì dietro un grosso tronco e ascoltò. Verne non era molto distante da lei. Lo sentiva parlare. Ci mise, tuttavia, un po’ per capire che non stava parlando, ma cantando, che si stava rivolgendo a lei con una voce da bambino, distorta e ossessionante.
«Vieni fuori, vieni fuori, ovunque tu sia. Tut-tiii, tut-tiii liberi. Forza, signorina, non puoi andare da nessuna parte.»
L’attenzione su Verne venne interrotta da uno sparo alla sua sinistra. Il proiettile si conficcò nel tronco dietro il quale era nascosta.
«Che diavolo stai facendo?» gridò Verne.
«È proprio là, cretino», ribatté Larry. «Proprio dietro quell’albero. Si arrenda, dottore, non può andare da nessuna parte.»
Vi fu un secondo sparo, poi un terzo, ma Nikki stava già correndo via, serpeggiando tra gli alberi e saltando i cespugli. L’enorme killer si era mosso molto più rapidamente di quanto avesse immaginato. Averlo sottovalutato era stato un errore che non avrebbe commesso di nuovo. Gli alberi e il fitto sottobosco erano sia alleati sia nemici, nascondendola fino a un certo punto, ma anche lacerandole faccia e braccia, minacciando di farla inciampare o di accecarla, e impedendole di riprendere fiato.
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