Michael Palmer - Sindrome atipica

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Sindrome atipica: краткое содержание, описание и аннотация

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Il dottor Rutledge ha la certezza che ci sia qualcosa di sospetto nelle morti dei suoi pazienti. Troppe banali influenze degenerate in incomprensibili complicanze non hanno lasciato scampo ai malati. L’uomo nutre un sospetto: che nell’evoluzione fatale delle malattie sia coinvolto il giacimento di carbone, la cui aria nera copre il cielo della sua città, nel West Virginia. Ma presto il dottore capisce che le sue indagini lo stanno portando a scoprire segreti molto più pericolosi di quanto potesse immaginare.

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«Dottor Rutledge», disse ansimando, «è appena arrivato un avviso via radio. La polizia ha ricevuto una telefonata da un automobilista in Wells Road. A quanto pare alcuni ragazzi si sono immersi e hanno tirato su dal fondo del Crystal Lake una donna. Stavano pescando sotto la Niles Ledge quando lei è precipitata dalla cengia proprio sopra di loro ed è affondata.»

«È viva?»

«Così dicono.»

Kirsten Langham, il secondo tecnico medico dell’ambulanza, si unì a loro. Aveva più esperienza di Gary, ma era ancora alle prime armi. Mettere insieme una simile squadra non era tipico della società di soccorso. Matt accompagnò i due all’ambulanza.

«Per quanto è rimasta sott’acqua?» domandò.

«Il messaggio non l’ha specificato. Ma c’è un problema.»

«Quale?»

«Rick Wise è il paramedico di turno, ma è andato a recuperare un motociclista. Se questa donna avesse bisogno di essere intubata, né io né Kirsten siamo qualificati a farlo.»

Crystal Lake è vicino a Wells Road. Matt valutò che i due tecnici ci avrebbero messo perlomeno mezz’ora, se non più, per raggiungere la donna, portarla fuori del bosco, caricarla sull’autoambulanza e tornare all’ospedale. Se avesse avuto bisogno di un tubo respiratorio, cosa più che certa, a meno che non fosse stata sveglia e in grado di parlare in modo sensato, i due avrebbero dovuto effettuare l’intubazione appena arrivati da lei.

«Aspettate un minuto», li fermò. «Vengo con voi.»

«Che Dio la benedica, dottore», esclamò Gary. «Le tengo un posto davanti.»

«No. Voglio stare dietro per verificare l’attrezzatura.»

«Kirsten l’aiuterà. Io mi metto al volante.»

Matt tornò di corsa al pronto soccorso, spiegò all’infermiera dove andava, quindi saltò nella cabina posteriore dell’ambulanza. Gli Slocumb avrebbero dovuto aspettare. Sperò che Lewis fosse ancora stabile, in caso contrario Frank avrebbe dovuto raccogliere tutto il suo coraggio e il suo buonsenso e ricoverarlo in ospedale.

A sirene spiegate, raggiunsero Wells Road in dieci minuti. Una macchina della polizia di Belinda, bianca e nera, era parcheggiata, vuota, sul bordo della strada, i lampeggianti accesi. Gary Lydon superò l’auto della polizia prima di accostare accanto a uno stretto sentiero che Matt sapeva portare alla Niles Ledge. Aveva preparato una grande cassetta di pronto soccorso in plastica con tutta l’attrezzatura che gli sarebbe servita se avesse dovuto intubare la donna. Con la cassetta in mano, corse attraverso il bosco, provando una forte, spiacevole sensazione di déjà vu. Sembrava fosse passato un anno dalla sua avventura con Lewis. Dopo quattrocento metri, il sentiero sinuoso si divise in due rami, uno che portava alla cengia, l’altro al lago.

«Prendete a destra», gridò, temendo che i due tecnici medici non fossero cresciuti in quella zona.

«Capito», rispose Gary.

La scena sotto l’enorme cengia era impressionante. Numerose barchette da pesca erano ormeggiate lungo la riva e i loro occupanti attorniavano due poliziotti in divisa e due adolescenti. Il Crystal Lake era lungo e piuttosto largo. La cengia, situata in una larga baia vicino all’estremità meridionale del lago, era difficile da raggiungere, ma forniva la possibilità di tuffarsi in cinque metri d’acqua e tutt’attorno la pesca era buona. I due ragazzi, che ancora indossavano jeans inzuppati d’acqua, ma si erano tolti camicia e scarpe, se ne stavano in disparte. Un poliziotto era inginocchiato accanto alla donna supina e le stava facendo la respirazione bocca a bocca, interrompendosi di tanto in tanto per guardarla trarre un respiro lento, da sola.

«Questi ragazzi sono stati degli eroi, dottore», disse con orgoglio il poliziotto in piedi. «L’hanno salvata.»

Ma che è rimasto di lei? si chiese Matt mentre s’inginocchiava accanto all’altro poliziotto.

«Agente Gibbons, signore», si presentò il giovane poliziotto. «Credo che ci siamo già conosciuti.»

«Che cosa è successo?» chiese Matt, già intento a esaminare la donna.

La donna, snella, bianca, sulla trentina, era priva di sensi e respirava debolmente. I capelli neri erano appiccicati sulla fronte, le labbra rosse. Matt disse all’agente di continuare a respirare per lei. Le pupille erano in posizione intermedia, ma non reagirono al lampo della penna luminosa, un segno pessimo o il risultato di un esame tecnicamente limitato. Indossava jeans, scarpe da ginnastica e una T-shirt nera con un’ondeggiante scala musicale sul davanti; sopra l’occhio sinistro notò un livido e una escoriazione. Vi era anche una lunga lacerazione, anzi un’incisione, lungo l’attaccatura dei capelli, appena sopra la tempia destra.

Quando arrivarono i due tecnici dell’ambulanza, Matt ordinò loro di iniziare a farle immediatamente la respirazione artificiale con il palloncino.

«Questi ragazzi stavano pescando proprio qui», cominciò a raccontare l’agente, «quando all’improvviso hanno visto questa donna precipitare dalla cengia sopra di loro. Uno di loro, Harris, il figlio di Percy Newley, giura di avere sentito qualcosa come uno sparo un istante prima di vedere la donna volare giù e finire in acqua.»

«Sono riusciti a tirarla fuori al primo tentativo?» domandò Matt, mentre le auscultava il torace con lo stetoscopio.

«Come, scusi?»

«Il figlio di Percy e il suo amico, l’hanno tirata fuori alla prima immersione?»

L’imbarazzata espressione dell’agente rivelò che aveva appena afferrato l’importanza di quella domanda che, ovviamente, non aveva posto.

«Harris, quanti tentativi avete fatto prima di portare su la donna dal fondo?»

«Due. Michael ci ha provato per primo, poi l’abbiamo fatto insieme. L’abbiamo tirata su per i capelli.»

«Grazie», disse Matt, preparandosi a intubarla.

Valutò che fosse rimasta sott’acqua per circa due minuti e sperò di non avere dato troppo credito ai ragazzi. Nel frattempo, Gary stava sistemando la coppetta triangolare del palloncino per la respirazione sulla bocca e sul naso della donna, mentre Kirsten inseriva un ago endovenoso. Dopo avere sistemato il tubo di ventilazione, avrebbe spostato la coppetta e collegato il palloncino direttamente al tubo endotracheale.

«Soluzione salina normale?» chiese Kirsten.

«Giusto», rispose Matt. «Vi state comportando benissimo. Grazie a questi eroi e alla buona tecnica bocca a bocca effettuata dai due agenti, questa donna ce la farà. Ha però ancora bisogno del nostro aiuto. Infilerò ora il tubo di ventilazione per farle arrivare dell’ossigeno concentrato nei polmoni. Mettiamola sulla barella, Gary, e solleviamola. Non vorrei lavorare disteso sulla pancia, con lei sdraiata a terra.»

In ospedale gli anestesisti erano le autorità dell’intubazione, avendo affinato la loro capacità centinaia di volte in sala operatoria. Durante uno dei suoi internati, Matt aveva scelto anestesia e intubato decine di casi sotto la loro guida. Negli anni successivi, aveva apprezzato quelle opportunità per una miriade di motivi. La regola principale era che, se il sanitario non eseguiva l’intervento in posizione comoda, fisicamente e mentalmente, le probabilità che l’intubazione non riuscisse aumentavano di molto. Le sciagure che capitavano più spesso erano le intubazioni esofagee invece che tracheali, il che portava al riempimento d’aria dello stomaco; la lacerazione dei tessuti della gola che causavano emorragie, che rendevano a loro volta più difficili i tentativi successivi; danni alle corde vocali, provocati nel tentativo di forzare il tubo troppo in profondità senza una adeguata visione; e infine, un’inserzione troppo profonda della cannula e l’occlusione di uno dei due condotti bronchiali.

Matt fece ciò che gli era stato insegnato e ciò che aveva poi insegnato a tanti studenti e paramedici, ma prima sprecò alcuni secondi per posizionare la sua nuova paziente e calmarsi prima di procedere. Piegò leggermente all’indietro la testa della donna, sdraiata sulla schiena, raddrizzandole il collo. Gary Lydon s’inginocchiò accanto a lui per tenere bloccata la testa in quella posizione. Ben saldo su un ginocchio e fiducioso nelle sue capacità per quanto poteva esserlo in quella situazione, Matt infilò la lama curva e illuminata del laringoscopio lungo la lingua della donna, quindi tirò la lama in su verso il mento. Tutto quello che riuscì a vedere fu acqua lacustre che sgorgava dai polmoni. Guai, forse grossi guai. Al pronto soccorso avrebbe potuto liberare le vie aeree con suzione. Qui no. Era possibile infilare alla cieca il tubo semirigido, una manovra comunque pericolosa. L’avrebbe fatto solo come ultimo espediente.

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