«C’è dell’altro. Avrò bisogno di un paio di pinze puntute come un ago.»
«Ne abbiamo una.»
«E un tubo in plastica del genere che usate per travasare benzina.»
«Abbiamo anche quello.»
«Bene. Per ultimo, avrò bisogno di un guanto di gomma dalla cassetta del pronto soccorso.» Gemette. «Maledizione, non importa. Avevo tirato fuori i guanti e li avevo messi nello zaino. Senti, per quello che devo costruire, un profilattico andrà ancora meglio. Sai cosa intendo, un preservativo. Uno di voi può correre in città e portarmi una confezione da tre?»
Per un attimo cadde il silenzio, poi Lyle disse: «Ne ho qui un paio».
Matt fissò ogni fratello, mentre Lyle andava in camera da letto. Se gli Slocumb pensavano che vi fosse qualcosa di strano, con la loro espressione calma lo mascheravano bene. Sorridendo senza denti ma con orgoglio, Lyle gli porse i due preservativi. L’incarto era stropicciato ma intatto.
«Non voglio sapere nulla», borbottò Matt a nessuno in particolare. « Non voglio sapere nulla.»
In attesa che tutto fosse pronto, Matt permise a Kyle di spalmargli una sostanza appiccicosa sulla faccia.
«Uh, questa roba brucia!»
«Mi sa che hai bisogno di un rasoio nuovo, dottore», scherzò Kyle.
Appena la stanza al piano di sopra fu pronta, Lewis venne portato su. Respirava a fatica e il suo colorito si era fatto più scuro. Matt aveva letto come si eseguiva l’inserzione di una sonda nel petto in un manuale sugli interventi d’emergenza. La maggior parte dei metodi descritti da un ex portaferiti in Vietnam erano fantasiosi. Alcuni, come la toracotomia d’urgenza per l’inserzione della sonda che stava per effettuare, erano decisamente spettacolari. L’elemento principale era il profilattico. Dopo averlo srotolato e avergli tagliato via la punta, avrebbe usato del nastro adesivo per attaccare la base del preservativo all’estremità del tubo da travaso che spuntava dal petto. Il floscio tubicino in lattice avrebbe funzionato perfettamente da valvola unidirezionale, lasciando uscire l’aria dalla cavità polmonare senza farne entrare. Le dita di un guanto in gomma avrebbero forse funzionato, ma non altrettanto bene e di certo non in modo tanto pittoresco.
Le lenzuola sul letto al piano superiore, con uno scolorito motivo floreale, erano sorprendentemente pulite, e odoravano anche di pulito. Dieci minuti di bollitura avevano eliminato benzina e altre sostanze contaminanti dal tubo di travaso lungo un metro e venti, e largo sei millimetri e dalla pinza appuntita. La cassetta del pronto soccorso era completa e includeva anche un visore d’ingrandimento, filo di sutura, potenti antibiotici iniettabili e Xylocaina, un anestetico locale. Matt pulì i fori del proiettile, li spalmò di pomata antibiotica e li ricoprì con garze. Utilizzò quindi la Xylocaina per rendere insensibile la zona sopra e sotto la ferita d’uscita.
«Lewis», spiegò Matt, «cercherò di addormentare questa zona quanto più posso, ma farà ugualmente male.»
«Più o meno di quando sono stato colpito?»
«Bella domanda.»
Usò un bisturi per forare la pelle resa insensibile, quindi tagliò un’estremità del tubo a punta.
«Trai un profondo respiro, Lewis, poi trattienilo e rilassati», disse. «Ecco, ora!»
Stringendo il più possibile l’estremità del tubo nella pinza dal becco appuntito, introdusse la pinza finché non la sentì toccare la costola. La fece poi scivolare dietro la costola, la spinse attraverso il muscolo intercostale fin nello spazio creatosi quando il polmone era collassato. Lewis, la fronte madida di sudore, gridò dal dolore, poi giacque immobile. Matt ritirò la pinza, lasciando il tubo nel torace. Per alcuni secondi ci fu un totale silenzio, poi, appena l’aria lo attraversò con una certa forza, il profilattico iniziò a palpitare.
Lewis rimase immobile, gli occhi chiusi, il respiro regolare, esausto. Matt attese per parecchi, silenziosi minuti, quindi gli auscultò il torace. Il polmone non si era ancora dilatato completamente, ma si udivano rumori respiratori dove poco prima non ve ne erano. Si chiese quanti altri avessero realmente impiegato una delle tecniche del manuale di pronto soccorso. Un giorno, a patto che lui e Lewis fossero sopravvissuti a questa prova, avrebbe scritto una lettera all’autore.
Dopo avere infilato venticinque centimetri di tubo nel petto di Lewis, lo fissò con una sutura e medicò l’apertura. Lo auscultò di nuovo. Altri suoni respiratori indicarono che il polmone si era ampliato ancora di più.
«Allora?» domandò Frank.
Matt iniettò a Lewis una grossa dose di antibiotico.
«Ecco», rispose, un accenno di stupore nella voce, «questa dannata cosa sembra abbia funzionato, almeno per il momento. Porterò via di nascosto dall’ospedale dell’ossigeno e altre cose che mi servono, e tornerò appena posso.»
Il colorito di Lewis era migliorato di colpo e lui aprì gli occhi.
«Sapevo che avevamo fatto bene a darti quei soldi quando hai bussato alla nostra porta per la colletta per la tua squadra di baseball.»
«Ti facciamo colpire da un proiettile, ti rimettiamo a posto», scherzò Matt. «È questo il nostro motto.»
Era ancora stupito dal fatto che quella tecnica, appresa leggendo seduto sul water, gli avesse permesso di salvare una vita. Che cosa avrebbe detto la banda di Harvard?
«Ehi, dottore?» domandò Lyle.
«Sì?»
«Se non hai intenzione di usare l’altro preservativo, posso riaverlo?»
Lynette Marquand si vantava di essere, e sono parole sue, precisa, puntuale e prevedibile. In compagnia di persone giuste avrebbe aggiunto, con una strizzatina d’occhi, appassionata. Per cinque giorni alla settimana, a meno che non fosse in vacanza, si alzava alle quattro e mezzo del mattino ed era nel suo ufficio, nell’ala destra della Casa Bianca, alle cinque. Al sabato dormiva fino alle sei, e alla domenica fino alle sette, a meno che suo marito non avesse bisogno del suo affetto prima di fare colazione e andare a messa. Questo mercoledì mattina, una giornata piovosa in tutto il distretto di Columbia, nel suo libro degli appuntamenti era annotato un solo nome, quello della dottoressa Lara Bolton.
Lynette provava solo sentimenti tiepidi verso quasi tutti i ministri di suo marito, ma la Bolton faceva eccezione. Alta più di un metro e ottanta, nera, il ministro della Sanità e dell’assistenza umanitaria era stata rappresentata da più di un vignettista politico come una cicogna e, con il suo stretto accento bostoniano, era un facile bersaglio per gli imitatori del Saturday Night Live.
Lara Bolton, come sempre in tailleur blu scuro, bussò ed entrò nell’ufficio di Lynette alle cinque e un quarto precise.
«Ebbene, Lara» esordì Lynette dopo che il ministro si era versata una tazza di caffè decaffeinato da una caraffa, «il mio staff ha una persona in meno.»
«Hai fatto la cosa giusta. Janine Brady ha partecipato a lungo a questo gioco. Non è tanto sprovveduta da garantire che una votazione sarà unanime senza avere controllato e ricontrollato.»
«E così, come siamo messi ora?»
«Sembra che Ellen Kroft abbia dei seri dubbi sull’Omnivax.»
«Dannazione.»
«È la rappresentante dei consumatori, per cui è impossibile che uno qualsiasi dei nostri sovvenzionatoli farmaceutici possa esercitare su di lei una pressione qualsiasi.»
«Era stato consultato uno dei miei prima che venisse designata?»
«Odio dirlo, ma era stata consultata proprio Janine Brady. Ma, Lynette, lo sono stata anch’io. La Kroft sembrava assolutamente innocua, un simbolo offerto dalla gente del PAVE. Nessuno di noi si aspettava una cosa simile.»
«E allora?»
«Il nostro uomo nel comitato, Poulos, mi ha detto che si sta occupando del problema. Ritiene che si possa fare qualcosa.»
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