Michael Palmer - Sindrome atipica

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Sindrome atipica: краткое содержание, описание и аннотация

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Il dottor Rutledge ha la certezza che ci sia qualcosa di sospetto nelle morti dei suoi pazienti. Troppe banali influenze degenerate in incomprensibili complicanze non hanno lasciato scampo ai malati. L’uomo nutre un sospetto: che nell’evoluzione fatale delle malattie sia coinvolto il giacimento di carbone, la cui aria nera copre il cielo della sua città, nel West Virginia. Ma presto il dottore capisce che le sue indagini lo stanno portando a scoprire segreti molto più pericolosi di quanto potesse immaginare.

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Matt si diresse carponi verso Lewis che se ne stava schiacciato contro la parete in una sacca d’ombra.

«Svelto!» bisbigliò Lewis.

Muovendosi il più velocemente possibile, Matt era a circa un metro dall’ombra quando una delle guardie lo scorse.

«Merda, Tommy, guarda! Laggiù!»

Matt vide l’uomo estrarre la pistola.

«Corri!» gridò Lewis mentre stava già scappando verso la galleria.

Matt lo seguì.

«Non dovremmo semplicemente dire loro chi siamo e che non vogliamo guai?» chiese mentre correvano.

«A loro interessa solo assicurarsi che non usciamo dalla caverna vivi», rispose Lewis. «Credimi.»

In quell’istante, dietro di loro esplosero dei colpi e le pallottole rimbalzarono dalle rocce.

«Gesù!» urlò Matt, chinandosi.

Aveva lasciato a terra lo zaino da montagna e l’apparecchio fotografico, ma per puro miracolo teneva ancora in mano la torcia elettrica di Lewis. La passò a Lewis e, seguendo la luce, si tuffarono nell’oscurità del corridoio.

All’inizio, Lewis si mosse con sorprendente velocità e agilità, ma, rapidamente, età e anni di sigarette presero il sopravvento e, quando raggiunsero la prima strettoia della galleria, stava ansimando. Matt sapeva che avrebbe potuto muoversi più velocemente da solo, ma, anche se avesse conosciuto le gallerie, non avrebbe mai abbandonato l’amico. Imprecò contro se stesso per avere cacciato entrambi in una simile situazione. Avrebbe dovuto aspettare, avrebbe dovuto mostrare quel misterioso biglietto alle autorità.

Altri spari. Matt pensò che non sarebbero mai riusciti a sfuggire ai loro inseguitori, ma Lewis aveva altri propositi. Girarono bruscamente a destra, quindi si calarono in una serie di corridoi bassissimi che Matt non ricordava d’avere preso all’andata. Il martellamento nel petto e l’oppressione in gola si accentuarono come capitava sempre quando si trovava in uno spazio ristretto. Si sforzò di continuare a strisciare. All’improvviso si ritrovò a pensare a suo padre. Come erano stati per lui quegli ultimi secondi dopo il crollo? Aveva avuto il tempo di provare paura? Avrebbe avuto paura se ne avesse avuto il tempo? L’esplosione l’aveva ucciso immediatamente, o era stato schiacciato dalle pietre?

I proiettili continuavano a rimbalzare dalle pareti rocciose e a schiacciarsi sulle pietre sotto di loro. Poi, bruscamente, la sparatoria finì.

«Da questa parte!» gridò Lewis, spegnendo la torcia. «Non possono più vederci. Ecco perché hanno smesso di sparare.»

Venne scosso da un accesso di tosse, ma esitò solo pochi secondi prima di riprendere a correre.

«Sai dove siamo?» chiese Matt.

«Mettiamola in questo modo. Io so dove sono io. »

Fece una risata gorgogliante e riprese a tossire.

«Lewis, tutto bene?» domandò Matt.

Non rispose. Si lasciò, invece, cadere sulla pancia e iniziò a strisciare attraverso una fenditura lunga due metri, non più alta di una cinquantina di centimetri e larga una sessantina di centimetri. Borbottava ad alta voce, ma continuava ad avanzare coraggiosamente. Matt chiuse gli occhi e lo seguì in quello stretto passaggio, con la paura che, da un momento all’altro, sarebbe svenuto, avrebbe vomitato o sarebbe semplicemente rimasto bloccato e sarebbe impazzito. Alla fine della fenditura, una sessantina di centimetri in più sopra la testa gli diedero lo stesso tipo di sollievo che si prova quando il dentista smette di trapanare.

Dopo un’eternità di tempo che strisciavano con le mani, le ginocchia e la pancia, il soffitto s’inclinò verso l’alto e l’aria prese un sapore più fresco. Lewis si alzò, traballando, in piedi, e testa e spalle furono nascoste dal soffitto. Matt strisciò fino a lui, inclinò la testa all’indietro e sentì una fine pioggia sul viso. Due metri circa sopra le spalle di Lewis, in cima al piano inclinato, vide una sfumatura più chiara di oscurità, il cielo.

«Puoi arrampicarti lassù?» gli chiese, sussurrando di nuovo, Lewis.

«Se non rimango incastrato, credo di sì.»

«Puoi spingermi su?»

«Certo. Infilo la testa tra le tue gambe e mi drizzo. Ma tu non tirarmi un pugno se divento intraprendente.»

Lewis non colse la pallida battuta di Matt, perché stava tossendo di nuovo.

«Sei certo di farcela?» chiese appena riprese fiato. «Non sono un peso mosca, sai.»

«Se vuole dire uscire di qua, posso sollevare un elefante. Poggiami le mani sulla testa, quindi, appena riesci ad afferrare qualcosa per tirarti su, fallo. Io t’aiuterò spingendoti i piedi. Pronto. Okay, uno, due, tre.»

Lewis non pesava più di sessantacinque, settanta chili al massimo e Matt aveva sufficiente energia nelle gambe per drizzarsi e tenere saldo Lewis stringendogli prima i fianchi, poi i piedi. Lewis gemette, emise un debole urlo, quindi si tirò su per lo scivolo e uscì.

«Svelto ora, e non fare rumore», mormorò verso il basso.

Matt alzò gli occhi e questa volta temette di non avere la forza o l’appiglio sulla roccia bagnata per tirarsi su. Mentre stava esaminando le pareti, si rese conto di avere la mano destra bagnata e appiccicosa. Annusò il palmo e cercò di vederlo, ma senza sforzarsi troppo. Aveva visto un numero sufficiente di incidenti al pronto soccorso per riconoscere l’odore e la sensazione tattile del sangue.

Puntellò schiena e spalle contro un lato del piano inclinato, allungò le braccia fino a che non riuscì a piegare le dita attorno a una roccia, quindi tirò su le ginocchia per incunearsi. Centimetro dopo centimetro fece scivolare la schiena su per la roccia, finché non poté tirare di nuovo su le ginocchia e ripetere la manovra. Finalmente sentì la punta dello stivale premere contro una piccola sporgenza. Un attimo dopo, Lewis l’afferrò per il colletto e lo aiutò a uscire.

Si trovavano sul fianco della collina, tra alberi fitti. Sei metri sotto di loro, due uomini con torce elettriche stavano ispezionando la base del pendio. A quanto pareva, le guardie avevano chiesto aiuto via radio.

«Te lo ripeto», stava dicendo uno dei due, «se ce la fanno a uscire, sarà attraverso uno dei posti giù da quella parte. Non serve a nulla continuare a cercare qui.»

Il secondo uomo scrutò il fianco della collina, ma si fece sfuggire la sua fiaccata preda per solo una quarantina di centimetri.

Matt, che aveva trattenuto il fiato, si avvicinò a Lewis che giaceva pressoché immobile sul terreno umido e coperto di foglie, respirando pesantemente.

«Stai sanguinando da qualche parte», osservò Matt.

«Come se non lo sapessi», ribatté Lewis, grugnendo e reprimendo un colpo di tosse. «Se esamini il fianco destro, proprio tra le costole, credo che troverai il foro di una pallottola.»

11

Trascorsero dieci minuti d’assoluto silenzio e buio, prima che Matt osasse accendere la torcia elettrica ed esaminare Lewis che giaceva immobile, faccia in giù, il fiato corto. La parte sinistra della tuta, della felpa e della T-shirt erano impregnate di sangue. Un foro di proiettile, la ferita d’entrata, ipotizzò Matt, era vicino alla scapola, all’altezza della sesta costola. Sanguinava ancora, anche se lentamente. Pian piano, attento a tenere la torcia il più possibile riparata sotto la maglia insanguinata, fece rotolare Lewis sul fianco destro.

Con le maniche della camicia, Matt lavò via un po’ del sangue. Sospirò di sollievo quando vide il foro di uscita, appena a sinistra del capezzolo. Mentalmente, tracciò una linea tra i due fori. Se la pallottola aveva fatto un percorso diritto, aveva attraversato direttamente il lobo più grande del polmone sinistro. Sapeva, tuttavia, per esperienza, che, a seconda del calibro della pallottola e di altri fattori, raramente il percorso attraversava in linea retta un corpo. Aveva visto un colpo sparato al petto la cui pallottola di basso calibro era entrata vicino alla spina dorsale ed era uscita accanto allo sterno senza neppure attraversare il petto. Il proiettile aveva percorso metà strada attorno al torace, nel muscolo appena sotto la pelle. In un altro caso la vittima, un anziano negoziante che era stato rapinato, non aveva avuto altri sintomi a parte dolore alla spalla e insensibilità al mignolo. La ferita d’entrata era nel braccio sinistro, ma mancava la ferita d’uscita, e i raggi X non avevano evidenziato la pallottola né nella spalla né nell’avambraccio. Alla fine il proiettile fu trovato nello stomaco dell’uomo: era rimbalzato tra le costole e il polmone, perforandolo quattro volte prima di bucare il diaframma e, infine, la parete dello stomaco.

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