Michael Palmer - Sindrome atipica

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Sindrome atipica: краткое содержание, описание и аннотация

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Il dottor Rutledge ha la certezza che ci sia qualcosa di sospetto nelle morti dei suoi pazienti. Troppe banali influenze degenerate in incomprensibili complicanze non hanno lasciato scampo ai malati. L’uomo nutre un sospetto: che nell’evoluzione fatale delle malattie sia coinvolto il giacimento di carbone, la cui aria nera copre il cielo della sua città, nel West Virginia. Ma presto il dottore capisce che le sue indagini lo stanno portando a scoprire segreti molto più pericolosi di quanto potesse immaginare.

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Resisti, Lewis.

Matt controllò la bussola, quindi spense i fari e illuminò la strada con la torcia elettrica. Se ancora non avevano udito il brontolio del motore da 900cc, l’avrebbero sentito presto. Ottocento metri percorsi all’andata, ottocento da percorrere al ritorno. Per ora, tutto bene. Quando mancavano solo duecento metri, si fermò e spense il motore. Immediatamente venne avvolto da un pesante silenzio. Attese un minuto per rimettere a punto i sensi. In lontananza, credette di udire delle voci. Aveva lasciato Lewis a circa settanta metri dalla collina: era ora di cercarlo a piedi.

Matt appoggiò la motocicletta contro un albero e, cautamente, avanzò. Le voci degli uomini, ora più chiare, provenivano da qualche parte alla sua destra. Non riusciva ancora a comprendere le parole, ma il tono pareva urgente.

«Lewis», sussurrò ad alta voce. «Lewis, sono io.»

Avanzò di un’altra decina di metri verso la collina. Da qualche parte alla sua destra udì il rumore acuto, sibilante, di un motore, con ogni probabilità quello di una moto ATV.

«Lewis! Dove sei?»

Gli pareva di trovarsi alla giusta distanza dalla collina, ma in nessun modo se aveva svoltato a destra troppo tardi o troppo presto. Vi era anche la possibilità che Lewis fosse stato catturato o, peggio, non potesse più rispondere.

Il motore sibilante pareva ora più vicino e Matt sentì che stava per soccombere al panico. Imprecò e chiamò di nuovo Lewis, questa volta con un tono di voce quasi normale. All’improvviso venne afferrato da dietro e trascinato a terra. Cadde pesantemente, ma non si perse d’animo, si liberò dell’aggressore e si girò, pronto a parare il colpo. Lewis s’inginocchiò accanto a lui, un dito sulle labbra.

«Per essere un gran bravo dottore, a volte non sei molto sveglio», lo rimproverò Lewis, interrompendosi ogni due parole per riprendere fiato. «Non sono più tanto lontani da non sentirti, se tu strillassi un po’ più forte di così, anche sopra il fracasso di quella dannata Honda che guidano.»

«Come fai a saperlo?»

«Erano qui. Due di loro. A nemmeno due metri da quella parte. Mi hanno quasi investito.»

«La moto è a una cinquantina di metri da qui. Pensi di farcela, Lewis?»

«Basta che tu mi dia una mano. Questo dannato buco comincia a darmi fastidio.»

La sua spacconeria non riuscì a mascherare l’evidente dolore e il respiro affannoso. Matt gli cinse la vita come prima, ma questa volta lo sentì appoggiarsi di più a lui.

«Ospedale?» chiese Matt speranzoso.

«Andrei prima all’inferno.»

Quando raggiunsero la Vulcan, Lewis stava tossendo di nuovo.

«Non sarà facile», osservò Matt, aiutandolo a mettersi a cavalcioni sul sedile del passeggero. «La moto non si è comportata molto bene nel bosco.»

«Allora faresti meglio a partire alla svelta. Quella che stanno guidando loro è fatta apposta per questo bosco.»

«Pensi di farcela?»

«Metti in moto e partiamo, fratello.»

Pose la mano destra sulla spalla di Matt e gli afferrò la camicia, il braccio sinistro stretto al petto per immobilizzarlo. Matt teneva nelle borse della Vulcan e della Harley un kit d’emergenza, ma questo non era il momento di giocare al dottore. Avviò il motore e cominciò lentamente a ripercorrere la strada che aveva preso deviando dal sentiero. Nel giro di pochi secondi udirono più forte il rumore del motore dietro di loro a sinistra. Era impossibile che riuscissero a svignarsela.

«Vai!» ordinò Lewis. «Non preoccuparti per me. Ce la farò. Vai da quella parte. È più corta.»

Matt accese gli abbaglianti e mise il piede sulla leva del cambio. Non aveva mai provato la Kawasaki fuoristrada, ma ora era il momento di farlo. Girando leggermente l’acceleratore, la Vulcan balzò in avanti nella fitta boscaglia. I successivi quattrocento metri furono spaventosi. Guidò a una velocità tra i trenta e i cinquanta, prestando attenzione solo agli alberi più grandi e fendendo il sottobosco a fatica. La Vulcan rimbalzava senza pietà su radici e pietre. Parecchie volte ebbe l’impressione che Lewis stesse per essere sbalzato a terra, ma in qualche modo l’uomo riuscì sempre a riprendere la presa e a tenersi avvinghiato a lui. I rami sbattevano contro la visiera di Matt e gli strappavano la pelle già escoriata. Più di una volta si trovarono a volare e ad atterrare poi con sufficiente velocità da rimanere ritti. Dopo una serie di sobbalzi che per poco non fecero sfuggire a Matt la moto, uscirono dal bosco e imboccarono il sentiero che si allontanava dalle colline. Matt ridusse per un attimo la velocità e nel silenzio si sentì solo il regolare tamburellamento del suo motore. «Stai bene?» chiese.

«Basta che mi porti alla fattoria», grugnì Lewis. «E non mi invitare più a fare altri giretti.»

Dopo pochi mimiti dal loro arrivo alla fattoria, i fratelli di Lewis erano già in azione. Kyle spinse la motocicletta di Matt nel fienile, prese il kit d’emergenza dalla borsa, quindi nascose la moto sotto un telone. Frank aiutò Matt a stendere Lewis su un divano sbrindellato nel grande e ingombro soggiorno. Sopra di loro, una balaustra correva lungo il corridoio del secondo piano, dirimpetto a numerose porte. Matt vide Lyle aprire lassù un armadio ed estrarne ogni genere di fucili, pistole e addirittura due armi semiautomatiche. «Che cosa sta facendo?» domandò. «I miei familiari sono dei bastardi molto abili», rispose Frank in tono piatto, indicando l’arsenale, «Non amiamo correre rischi.»

Matt usò un paio di cesoie per tagliare la camicia inzuppata di sangue di Lewis. Kyle tornò, pose la cassetta del pronto soccorso accanto al divano, poi andò in cucina e tornò con un vasetto senza etichetta mezzo pieno di una sostanza appiccicosa, densa, pungente, color beige. Spalmò quell’unguento sul viso di Lewis e tolse il nero altrettanto pungente. Sotto la mimetizzazione, Lewis era pallido e tirato. Guardò Matt e lesse i suoi pensieri.

«Niente ospedale.»

Matt si aggiustò lo stetoscopio attorno al collo e s’inginocchiò accanto a Lewis.

«Per favore, procuratemi una scodella d’acqua calda», chiese. «Metteteci dentro del sapone, se ne avete, del sapone per stoviglie andrebbe meglio. E un asciugamano pulito.»

I fori del proiettile, per nulla aiutati dalla corsa attraverso il bosco, erano quasi del tutto coagulati, anche se il sangue fluiva ancora dal bordo della ferita d’uscita. Matt pose le mani sulla schiena di Lewis e le osservò mentre l’uomo inspirava. La parte destra si muoveva decisamente più della sinistra. Lo auscultò con lo stetoscopio e il suo sospetto venne confermato. Parte del polmone perforato di Lewis si era afflosciata. Infilò sul braccio destro di Lewis l’apparecchio per misurare la pressione e lo gonfiò per chiudere l’arteria brachiale che correva sotto la curvatura del gomito. Auscultando sopra l’arteria con lo stetoscopio, sgonfiò lentamente il bracciale, finché non sentì il sangue riprendere a pulsare attraverso il vaso. Il suono indicò il valore più alto della pressione sanguigna di Lewis, 110, equivalente alla forza necessaria per alzare una colonna di mercurio a 110 millimetri. La situazione avrebbe potuto essere peggiore, decisamente peggiore.

«Lewis», cominciò a spiegare, «il tuo polmone è collassato. L’unico modo che ho per rimetterlo in funzione è infilarti una sonda nel torace. E l’unico posto in cui posso farlo è l’ospedale.»

Lewis scosse la testa cupamente e distolse lo sguardo.

«D’accordo, d’accordo», accettò Matt. «Farò quello che posso. Frank, sopra c’è una stanzetta con un letto. Voglio che la ripuliate e che mettiate sul letto le lenzuola più candide che avete e anche due cuscini con federe pulite. Capito?»

«Dammi dieci minuti», rispose Frank.

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