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Marco Buticchi: Profezia

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  • Название:
    Profezia
  • Автор:
  • Издательство:
    Longanesi
  • Жанр:
  • Год:
    2000
  • Город:
    Milano
  • Язык:
    Итальянский
  • ISBN:
    978-88-304-1651-2
  • Рейтинг книги:
    4 / 5
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Si stiracchiò nel letto. Finalmente si alzò, aprì la porta di casa e, ancora assonnata, rientrò con una bottiglia di latte fresco e il giornale.

Bastò un’occhiata distratta alla notizia che riempiva la prima pagina per darle un intenso brivido: quella scena l’aveva già vista alcuni giorni prima che accadesse. Un’autobomba era esplosa di fronte alla sede di un’ambasciata americana in Medio Oriente.

Cominciò a leggere avidamente l’articolo, che rimandava a una pagina interna, ma prima di proseguire fu attratta da un trafiletto: «Roma. Solenni celebrazioni per la ricorrenza della morte del cardinale Vittorio Febi. L’indiscusso sovrano delle finanze vaticane degli anni ’70, stroncato da un infarto due anni fa, è stato commemorato…»

Maggie tornò alla notizia principale, fermandosi spesso a scrutare le fotografie: le aveva tutte nitide nella mente come un film visto tante volte da conoscerlo ormai a memoria. Era la prima volta che vedeva materialmente quelle immagini, ma sapeva di averle già viste durante uno di quegli strani attimi di buio in cui non riusciva a controllare la mente.

Situazioni strane, inspiegabili, come quando era caduta in trance nella stanza di Pat e Derrick. Ma né lei né gli amici presenti alla seduta spiritica ne avevano più parlato. Scorse ancora una volta il titolo: «Grave atto terroristico. Dodici cittadini degli Stati Uniti uccisi in un attentato».

Pat Silver si svegliò che era ormai pomeriggio inoltrato. Il suo primo pensiero fu, anche per lui, la bella bocca di Maggie Erriot. Si alzò, massaggiandosi le tempie e faticando un po’ a mantenere l’equilibrio.

Il suo compagno di stanza, Derrick Grant, era davanti al televisore, sul cui schermo scorrevano le drammatiche immagini dell’attentato.

«Che figli di puttana», disse. «E come al solito resteranno impuniti.»

In quel momento suonò il telefono.

«Pat», esclamò la voce di Maggie, sensibilmente turbata, «ho visto le immagini dell’attentato.»

«Certo, le stiamo guardando anche noi. Una cosa terribile.»

«No, Pat… volevo dire… non le sto vedendo adesso. Le ho già viste… prima , almeno… almeno una decina di giorni fa.»

«Maggie, Maggie, sei sicura che non ti abbiano giocato un brutto scherzo i cocktail di ieri sera?»

«Sono sicurissima, Pat», ribatté lei senza un attimo di esitazione. «E continuo a sentirmi… non so come spiegarti… collegata a quell’avvenimento.»

« Collegata? Boh. Comunque, che cosa posso fare per te?»

«Niente, temo, Pat. Ma tu, Derrick e Annie siete i miei amici più cari. Volevo soltanto comunicarvi una sensazione strana, senza essere presa per visionaria.»

«Anche tu mi sei molto cara, Maggie, e lo sai», rispose Pat d’un fiato. Avrebbe anche voluto aggiungere altre cose, ma si trattenne.

«Che cosa dice la nostra Venere Nera?» chiese Derrick, non appena Silver ebbe posato il ricevitore.

L’altro lo informò rapidamente delle strane visioni premonitrici dell’amica.

«Potremmo chiedere aiuto a mio padre», ribatté prontamente Derrick. «Conosce un sacco di gente importante.»

«Credo sia meglio lasciar perdere. Se però queste visioni dovessero ripetersi, sarà il caso di pensarci più a fondo.»

Ekaterinburg. 1980

Quasi due anni in quella maledetta fabbrica, a ripetere movimenti sempre identici. Ai tempi dello zar, Ekaterinburg era la sede della zecca. Prima di vedere la fine dei Romanov, per decenni aveva riprodotto le effigi degli zar su monete e banconote. E la fabbrica dove lavorava Iosif Drostin, ora convertita alla produzione di bulloneria, era proprio l’edificio in cui un tempo venivano coniate le monete.

Appena concluso il turno di lavoro, Drostin tornò nella sua stanza, dove cercò di fare un po’ di ordine tra le sue poche cose. Gli vennero tra le mani i suoi vecchi quaderni, quelli su cui nonno Igor gli aveva pazientemente insegnato a leggere e scrivere. Gli aveva raccomandato infinite volte di tenerli sempre con sé. «Lì dentro c’è il tuo avvenire…» diceva.

Commosso dal ricordo, Iosif prese a leggere per l’ennesima volta ciò che gli aveva dettato il nonno tanti anni prima.

« Lo zar e la zarina giunsero a Ekaterinburg il 30 aprile 1918. Io facevo parte del servizio d’ordine alla stazione. Si viveva in un clima di profonda inquietudine: in gennaio il Soviet degli Urali aveva addirittura condannato a morte un cugino di Lenin, Viktor Ardasev. Quando in maggio fui comandato come sottufficiale addetto alla sorveglianza della famiglia imperiale, mi stupii non poco: gli uomini che sorvegliavano i Romanov erano tutti legati alla Ceka, il servizio segreto, con cui non avevo mai avuto rapporti. Per loro non avevo nemmeno alcuna simpatia.

« I motivi della scelta risiedevano sicuramente nel fatto che nessuno di loro conosceva l’inglese, mentre io ne avevo qualche nozione a causa di un mio passato impiego. Era infatti in quella lingua che comunicavano abitualmente tra loro lo zar e la sua famiglia. Fui subito molto colpito dall’atteggiamento dei miei commilitoni nei confronti della famiglia imperiale. Ero un rivoluzionario come loro, ma mai mi avrebbe sfiorato l’idea di schernire i prigionieri o disegnare sulle pareti frasi oscene circa la zarina e i suoi presunti rapporti carnali con il monaco Rasputin. Quanto allo zar, era un uomo mite e molto attaccato alla famiglia. Nei miei confronti ha sempre manifestato rispetto e umanità.

« Quando Jurovskij venne a sostituire Avdeev al comando di Casa Ipat’ev, si portò dietro un drappello di fedelissimi, tra cui diversi lettoni. Come il loro comandante erano uomini integerrimi, ma spietati. Con il suo arrivo, comunque, molti dei miei compagni furono allontanati, e i prigionieri cominciarono a essere trattati con maggiore rispetto.

« Io invece rimasi, credo per lo stesso motivo che aveva indotto i miei superiori a mandarmi lì: allo zar e ai suoi era vietato esprimersi in una lingua diversa dal russo, ma nessuno sarebbe stato in grado di capirli se si fossero parlati in inglese. Non posso negare che mi affezionai a quelle giovani donne e allo zarevic Alessio, così indifeso, sempre a letto per la grave malattia che lo minava. »

New York. 1980

La sensazione. Ormai Maggie Erriot chiamava così il misto di eccitazione e paura che accompagnava le sue visioni. Non riusciva a dominarlo, era un fenomeno troppo nuovo e inspiegabile, ma a questo punto aveva capito che doveva imparare a conviverci. Quando la sensazione s’impadronì ancora una volta di lei, la giovane era perfettamente sveglia e cosciente.

La finestra che vide era al terzo piano di un malandato stabile di periferia, affacciato su un incrocio. A destra un caffè con un’insegna rossa, a sinistra un negozio di toeletta per animali. Vedeva perfettamente la scena, distinguendo tanti altri piccoli particolari. Nella stanza c’erano due uomini di carnagione scura, intenti ad armeggiare con un materiale gelatinoso e alcuni timer. Sapeva che erano implicati nell’attentato di quaranta giorni prima.

Quando la sensazione cessò, ancora ansante e confusa alzò la cornetta e compose il numero di Derrick Grant.

Pochi minuti più tardi Derrick Grant chiamò il padre a Rio de Janeiro, dov’era tuttora di stanza. Lo tranquillizzò per quella chiamata fuori orario e venne subito al dunque, cercando di esporlo nella maniera più logica, anche se era proprio la logica il punto debole della situazione. Infatti il tono di suo padre non fece niente per nascondere la perplessità.

«Mi chiami nel cuore della notte, e da così lontano, per dirmi che una tua amica è una visionaria?»

«Papà, Maggie Erriot è una ragazza con la testa molto sulle spalle.»

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