Giorgio Faletti - Io sono Dio

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Non c’è morbosità apparente dietro le azioni del serial killer che tiene in scacco la città di New York. Non sceglie le vittime seguendo complicati percorsi mentali. Non le guarda negli occhi a una a una mentre muoiono, anche perché non avrebbe abbastanza occhi per farlo. Una giovane detective che nasconde i propri drammi personali dietro a una solida immagine e un fotoreporter con un passato discutibile da farsi perdonare sono l’unica speranza di poter fermare uno psicopatico che nemmeno rivendica le proprie azioni. Un uomo che sta compiendo una vendetta terribile per un dolore che affonda le radici in una delle più grandi tragedie americane. Un uomo che dice di essere dio.

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Attraversò l’atrio e uscì dalla porta a vetri. Sui gradini si fermò e si guardò un attimo intorno.

Una macchina con due agenti a bordo stava facendo retromarcia per uscire dal parcheggio di fianco all’ingresso del Distretto. Vivien fece loro un segno e scese di corsa la breve scalinata. Raggiunse la macchina, vedendo il riflesso del cielo sparire dal vetro del finestrino abbassato dall’agente.

«Dovete darmi un passaggio fino alla Terza Avenue, all’angolo con la 23sima Strada.»

«Sali.»

Aprì la portiera posteriore e si sedette in un posto che di solito era riservato alle persone arrestate. Tuttavia Vivien aveva troppa furia per cogliere la bizzarria di quel dettaglio.

«Usate la sirena.»

Senza chiedere spiegazioni, l’agente alla guida accese il lampeggiante e partì deciso, con un leggero stridere di pneumatici. Quel viaggio di tre isolati le sembrò lunghissimo, tanta era la smania di arrivare. Quando rivide le transenne di plastica arancione del cantiere, rivisse la scoperta del cadavere di Mitch Sparrow, un caso che poteva essere solo un nuovo fascicolo negli schedari e che invece aveva avviato tutta quella storia pazzesca. E che forse si sarebbe rivelato fondamentale per concluderla.

Sembrava che la follia, del caso e degli uomini, fosse il filo rosso da seguire per collegare fra loro fatti e personaggi.

La macchina non era ancora ferma del tutto che Vivien aveva aperto la portiera e si apprestava a scendere.

«Grazie, ragazzi. A buon rendere.»

Non sentì la risposta, non sentì la macchina ripartire. Era già accanto a un operaio appena uscito dal varco nella staccionata di confine. Lo confuse con la sua fretta evidente e la concisione delle sue parole.

«Dove trovo il signor Cortese?»

L’uomo indicò un punto oltre lo steccato.

«Stava salendo dietro di me.»

Dopo un attimo apparve la figura di Jeremy Cortese. Indossava lo stesso giubbetto del giorno in cui si erano incontrati. Quando se la vide venire incontro la riconobbe subito. Difficile dimenticare qualcuno che richiama alla memoria la scoperta di un cadavere.

«Buongiorno, signorina Light.»

«Signor Cortese, ho bisogno di rivolgerle alcune domande.»

Con un briciolo di perplessità, che comprendeva la mancanza di alternative, il capocantiere si mise a disposizione.

«Dica pure.»

Vivien si allontanò di qualche passo. Il posto in cui erano serviva da passaggio e avrebbero potuto disturbare ed essere disturbati dal lavoro degli operai. Si mise di fronte a Cortese e scandì le parole per essere più chiara possibile, come se lei e quell’uomo parlassero due lingue differenti.

«Ho bisogno che faccia un grosso sforzo di memoria. Lo so che sono passati anni ma è importante quello che lei mi risponderà. Molto importante.»

L’uomo confermò con un cenno di avere capito e aspettò in silenzio il seguito. Vivien pensò che sembrava un concorrente di Chi vuol essere milionario?, tutto teso nella sua concentrazione.

«So che lei ha lavorato per l’impresa che ha costruito il palazzo nel Lower East Side, quello dove c’è stato l’attentato sabato scorso.»

Un’ombra di timore e di allarme arrivò a coprire lo sguardo del capocantiere. Quel breve preambolo gli aveva appena comunicato la notizia che la Polizia stava indagando su di lui. Le sue spalle si afflosciarono un poco e il suo tono di voce divenne l’esito del suo malessere.

«Signorina, prima di continuare le faccio io una domanda. Mi serve un avvocato?»

Vivien cercò di metterlo a suo agio e di essere il più possibile rassicurante.

«No, signor Cortese, non ha bisogno di un avvocato. Lo so benissimo che lei non c’entra niente. Voglio solo sapere un paio di cose al riguardo.»

«Mi dica.»

La domanda si posò come un fissante sulla sua espressione ancora smarrita.

«Fra gli uomini che hanno lavorato con lei alla costruzione di quell’edificio, ricorda se ce n’era uno con il viso e la testa sfigurati da cicatrici?»

La risposta arrivò subito, senza esitazioni.

«Sì.»

Il cuore di Vivien saltò un battito.

«Ne è sicuro?»

Dopo il primo duro colpo alla sua serenità, Cortese sembrava rassicurato dalla piega presa dal procedere del colloquio. Sembrava ansioso di rispondere per poter archiviare quella conversazione fra i ricordi poco piacevoli.

«Non era nella mia squadra ma ricordo di avere incrociato diverse volte un tipo con la faccia rovinata in quel modo. Devo dire che un viso del genere si faceva notare.»

Il cuore era diventato un lungo percorso sospeso nel petto di Vivien.

«Ricorda anche come si chiamava?»

«No. Non ci ho nemmeno mai parlato.»

La delusione arrivò e subito scomparve dalla mente di Vivien, cancellata dalla magia di un’idea.

«Dio la benedica signor Cortese. Dio la benedica mille volte. Lei non immagina nemmeno quanto mi è stato utile. Torni pure a lavorare e stia tranquillo.»

Appena il tempo di ricambiare la stretta di mano e poi Vivien gli girò le spalle, lasciando solo in mezzo alla strada un uomo sollevato e allibito.

Prese il cellulare e compose il numero diretto del capitano.

Non gli diede nemmeno il tempo di dire il suo nome.

«Alan, sono Vivien.»

«Che succede? Dove sei finita?»

«Puoi richiamare gli uomini. La ricerca sui nomi non serve più.»

Attese un attimo, per dare tempo alla curiosità di Bellew di sintonizzarsi con quello che stava per chiedergli.

«Devi sguinzagliare quanta più gente puoi in ogni ospedale di New York. Devono andare in tutti i reparti oncologici a verificare se, nell’ultimo anno e mezzo, è morto presso di loro un uomo con il viso sfigurato da cicatrici da ustioni.»

Ora che il cancro ha fatto il suo lavoro e io sono da un’altra parte…

Bellew, come tutti d’altronde, ormai sapeva quella lettera a memoria.

L’eccitazione di Vivien divenne subito anche la sua.

«Sei grande, ragazza. Metto subito gli uomini in caccia. Ti aspettiamo qui.»

Vivien chiuse il telefono e tornò a infilarlo in tasca. Mentre tornava di buon passo verso il Distretto, confusa tra la folla, avrebbe pagato qualsiasi cifra per essere una donna qualunque in mezzo a gente qualunque. Invece a ogni persona che incrociava si chiedeva con angoscia se era una di quelle che avrebbe perso o una di quelle che avrebbe salvato. Anche per loro, tenne sospesa per aria una speranza. Forse l’uomo che aveva lasciato dietro di sé una scia di bombe come i sassolini di una tragica fiaba, morendo come tutti gli esseri umani aveva lasciato dietro di sé anche un nome e un indirizzo.

CAPITOLO 27

Padre McKean si fece strada di malavoglia fra la gente che affollava il Boathouse Café. Sul suo viso erano evidenti le tracce della notte insonne, passata davanti al televisore a risucchiare con l’avidità di un assetato le immagini dallo schermo e nello stesso tempo a respingerle dalla mente come un pensiero orrendo.

Io sono Dio…

Quelle parole continuavano a risuonare nella sua testa, come l’infame colonna sonora delle visioni che la memoria continuava a ripercorrere. Le auto distrutte, le case danneggiate, il fuoco, le persone ferite e coperte di sangue. Un braccio, staccato da un corpo per la violenza dell’esplosione, che giaceva sull’asfalto, impietosamente inquadrato dalle telecamere.

Tirò un profondo respiro.

Aveva pregato a lungo, chiedendo conforto e illuminazione là dove di solito li trovava. Perché la Fede era sempre stata la sua consolazione, il punto da cui era partito e il punto a cui arrivava ogni volta, qualunque fosse la natura del percorso. Grazie alla Fede era iniziata la sua avventura con la comunità e grazie ai risultati che avevano ottenuto con molti ragazzi, si era permesso di sognare. Altre Joy, altre case dislocate per tutto lo Stato nelle quali i giovani attratti dalla droga avrebbero avuto la possibilità di smettere di sentirsi falene davanti a una candela. I ragazzi stessi erano stati, da un certo punto in poi, la sua forza.

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