«Scusami. Non è una bella giornata per me, oggi.»
«Non c’è problema. Dimmi se posso aiutarti in qualche modo.»
Ma certo che puoi aiutarmi in qualche modo. Potresti abbracciarmi e permettermi di essere una ragazza qualunque che piange sulla spalla di qualcuno e…
Cancellò quel pensiero col suono della voce.
«Grazie. Adesso passa.»
Scesero dalla macchina ed entrarono nel Distretto. Salirono veloci di sopra, nell’ufficio del capitano. Ormai la presenza di Russell era considerata da tutti un fatto acquisito, anche se non da tutti accettata.
Senza fornire troppi dettagli, il capitano aveva detto ai suoi uomini che era una persona informata dei fatti, che stava collaborando con Vivien a un’indagine che richiedeva la sua costante partecipazione. Vivien sapeva che i suoi colleghi non erano stupidi e che prima o poi qualcuno avrebbe annusato qualcosa. Ma per il momento, malumori a parte, bastava che facessero finta di niente finché tutto non fosse risolto.
Quando li vide arrivare, il capitano sollevò il viso dai documenti che stava firmando.
«Allora?»
«Forse abbiamo una traccia.»
Bellew chiuse subito la cartellina che aveva davanti. Russell e Vivien si sedettero davanti alla scrivania. In poche parole la detective raccontò del signor Newborn e del Fantasma del Cantiere, un tipo dal viso sfigurato che in modo molto sospetto aveva mostrato un evidente interesse a lavorare nella costruzione della casa del maggiore Mistnick. Spiegò con quale perfezione la casa fosse implosa e con quanta accuratezza dovevano essere state posizionate le cariche per ottenere quel risultato.
Il capitano si appoggiò allo schienale della sedia.
«Ripensando al contenuto della lettera e alla precisione delle esplosioni più recenti, potrebbe essere la persona giusta.»
«È quello che pensiamo anche noi.»
«Ora resta solo da verificare la sua presenza in altri cantieri e risalire al nome. In che modo e in quanto tempo non lo so. Una cosa utile che possiamo fare nel frattempo è approfondire le indagini su questo maggiore.
Farò svolgere delle ricerche presso l’esercito. Per quanto riguarda noi, mi hanno appena chiamato Bowman e Salinas dalla Pike’s Peak. Hanno il materiale che stiamo cercando. Penso che fra poco saranno qui. Dagli altri uomini che ho mandato in giro non ho ancora novità.»
Il telefono sulla scrivania iniziò a squillare. Vivien vide dalla spia sul quadro dell’apparecchio che la chiamata arrivava dall’atrio. Il capitano allungò la mano e portò la cornetta all’orecchio.
«Che c’è?»
Rimase un attimo ad ascoltare. Poi si concesse uno scatto d’ira.
«Cristo santo, gli ho detto di venire da me appena rientravano. Adesso si fanno prendere dalle manie di etichetta e si fanno annunciare? Falli salire e alla svelta.»
Il telefono ritornò al suo alloggiamento naturale con un poco più di forza del dovuto. Il led si spense.
«Teste di cazzo.»
Vivien era rimasta sorpresa da quello scoppio di nervi. Di solito Bellew era una persona misurata, che tendeva anzi a diventare impassibile quando si trovava sotto pressione. Tutti, al Distretto, almeno una volta avevano avuto a che fare con la sua voce calma e fredda, che rendeva ancora più efficace la lavata di capo che stavano ricevendo. Un simile scatto non era da lui. Subito dopo ricordò a se stessa che in quelle circostanze, con tutti quei morti alle spalle e la prospettiva di altri morti davanti, sarebbe diventato sempre più difficile definire che cosa fosse da chi.
Preceduti dal rumore di passi sulle scale, le sagome di due agenti si profilarono nel vetro smerigliato della porta. Bellew con voce alta e non senza un cenno di sarcasmo disse «Avanti» prima che uno dei due avesse il tempo di bussare.
Gli agenti Bowman e Salinas entrarono con l’aria mogia, reggendo ognuno una grossa e pesante scatola di cartone. Di certo il collega di piantone doveva aver riferito loro le parole del capitano.
Bellew indicò il pavimento di fianco alla scrivania.
«Mettetele qui.»
Non appena le scatole furono posate a terra ed ebbe modo di vedere l’interno, a Vivien prese lo sconforto. Erano piene di tabulati. Se anche gli schedari delle altre società avessero avuto quella mole di documenti, confrontarli sarebbe diventato un lavoro lunghissimo. Alzò la testa a guardare Russell e capì che anche lui aveva pensato la stessa cosa.
Il capitano, ancora chino a esaminare l’interno delle scatole, espresse in parole il pensiero di tutti.
«Porca miseria, ma questa è l’Enciclopedia Britannica.»
L’agente Bowman cercò di riabilitare se stesso e il suo collega agli occhi del superiore posando sulla scrivania anche un sottile quadrato di plastica nera.
«Insieme al cartaceo abbiamo pensato che potesse essere utile avere i file. Mi sono fatto masterizzare un cd con tutti i dati.»
«Ottimo lavoro, ragazzi. Potete andare.»
Liberati da quest’ultima affermazione del capitano, i due ritrovarono la porta e un briciolo di sollievo. Vivien avvertiva la loro curiosità per una ricerca che erano stati chiamati a compiere senza saperne del tutto la finalità. In effetti c’era nell’aria la curiosità di tutti, per quella serie di fatti anomali che stavano sconvolgendo la normale prassi inquisitoria: la presenza di Russell, l’ansia inusuale del capitano, il silenzio di Vivien, il segreto che circondava l’indagine. Era certa che ormai tutti avevano capito che riguardava da vicino le due esplosioni che si erano succedute nel giro di tre giorni. Anche da quella parte, con tutta la buona fede del mondo, poteva esserci una percentuale di pericolo, per cui era vitale fare in fretta.
Russell la precedette di una frazione di secondo nel mettere sul tavolo le sue perplessità.
«Per fare in fretta, ci vorranno un sacco di uomini per questo lavoro.»
Se il capitano era stato colto per un attimo dallo stesso avvilimento, lo aveva già superato. La sua voce era positiva e propositiva, mentre forniva l’unica risposta possibile.
«Lo so. Eppure dobbiamo riuscirci a tutti i costi. Per ora non possiamo fare nulla, finché non arrivano gli altri dati. Poi in qualche modo ci organizzeremo, dovessi mettere al lavoro tutti i poliziotti di New York.»
Vivien si alzò e andò a prendere un fascicolo dalla scatola. Tornò a sedersi e se lo appoggiò in grembo. Sulle righe alterne bianche e azzurre delle pagine spiccava un lungo elenco di nomi, memorizzati in ordine alfabetico. Iniziò a scorrerli, per togliersi di dosso quel senso di ristagno che la situazione contingente aveva portato nella mente di tutti.
Una serie senza fine di lettere con una sequenza quasi ipnotica per gli occhi che scivolavano sul foglio
A
Achieson, Hank
Ameliano, Rodrigo
Anderson, William
Andretti, Paul
e poi tutti gli altri fino alla pagina dopo
B
Barth, Elmore
Bassett, James
Bellenore, Elvis
Bennett, Roger
e poi ancora nomi fino alla nuova pagina
C
Castro, Nicholas
Cheever, Andreas
Corbett, Nelson
Cortese, Jeremy
Crow…
Gli occhi di Vivien si bloccarono di colpo e quell’ultimo nome divenne gigantesco nella sua immaginazione. Poi subito lo collegò a un sorriso soddisfatto, quando lei aveva trattato come una pezza da piedi la povera Elisabeth Brokens. Si alzò di scatto, facendo cadere a terra l’incartamento.
Alle espressioni stupite di Russell e di Bellew lasciò due sole parole.
«Aspettatemi qui.»
Raggiunse la porta a passo spedito e scese le scale con tutta la velocità che le era possibile senza rischiare di rompersi l’osso del collo a ogni gradino. Dentro di lei vibravano l’eccitazione e la leggera euforia dell’adrenalina, arrivata di colpo in circolo. Dopo tanti forse e tanti se, dopo una sequenza interminabile di «Non ricordo», finalmente un piccolo colpo di fortuna. Arrivò nell’atrio pregando che quella sua speranza, nata dalla casualità più pura e benedetta, non si rivelasse un’illusione alla verifica dei fatti.
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