Il cielo era tornato azzurro e la città aveva assorbito il nuovo affronto della notte precedente nascondendolo nel traffico e nell’apparenza di un giorno qualunque. Davanti ai loro occhi il Madison Square Park presentava l’aspetto che di solito aveva in una bella giornata di quella stagione. Pensionati in cerca di sole con cani in cerca di piante. Mamme con bambini troppo piccoli per avere l’età di andare a scuola e adolescenti troppo pigri per averne voglia. Al centro, un mimo truccato come la Statua della Libertà attendeva immobile che qualcuno gettasse una moneta nella latta che aveva a terra davanti a lui per gratificarlo con un paio di movimenti. Mentre guardava quella scena familiare, Vivien ebbe la sensazione che di colpo una delle persone che la animavano si sarebbe girata verso di lei e avrebbe mostrato un viso sconvolto dalle cicatrici.
Fermò Russell, che già si stava avvicinando alla macchina.
«Hai fame?»
«Non molta.»
«Ci conviene mangiare qualcosa. Ora ce lo possiamo permettere, in attesa che le ricerche ordinate da Bellew diano qualche risultato. Poi potremmo non avere più tempo. Per esperienza ti posso assicurare che uno stomaco che brontola non favorisce la concentrazione.»
Sull’angolo del parco, dall’altra parte della via, c’era un chiosco dipinto di grigio che serviva hot dog e hamburger. Pur nella sua semplicità, era di una certa eleganza e si inseriva senza strepito nel contesto naturale. Vivien indicò una fila di gente in attesa.
«Le guide dicono che questo sia il migliore di New York. All’ora di pranzo la coda arriva fino a Union Square.»
«Okay. Vada per un hamburger.»
Attraversarono la strada e si misero in coda. Finalmente, Vivien tradusse in parole quello che di certo era un interrogativo comune.
«Che ne pensi di quello che ha detto Newborn? L’uomo con le cicatrici, intendo.»
Russell ci mise un attimo prima di esporre la conclusione alla quale era arrivato.
«Per me è lui il nostro uomo.»
«Anche per me.»
Con questo avevano suggellato la loro responsabilità. Da quel momento in poi quella era la pista da seguire con tutti i mezzi che avevano a disposizione. Se si fosse rivelata quella sbagliata avrebbero avuto per sempre sulla coscienza, a torto o a ragione, la responsabilità della morte di molte persone. Il numero esatto era nelle loro mani e in quelle di un folle impegnato in una guerra avuta in eredità da un altro uomo che aveva seguito per anni la stessa pazzia.
Nel nome del Padre…
Vivien si ritrovò quasi senza accorgersene davanti allo sportello delle ordinazioni. Pagò due cheeseburger e due bottiglie d’acqua. Ricevette in cambio un piccolo ricevitore elettronico con il quale sarebbero stati avvertiti quando il cibo era in consegna.
Si allontanarono dal chiosco e raggiunsero una panchina poco distante.
Russell si sedette con un’ombra sul viso.
«Ti prometto che questa è l’ultima volta.»
«L’ultima volta che cosa?»
«Che paghi per me.»
Vivien lo guardò. Era sinceramente dispiaciuto. Lei sapeva che da quella situazione si sentiva umiliato. In un certo senso, quella era una cosa stupefacente. Dell’uomo che Russell Wade era stato fino a pochi giorni prima sembrava essersi persa ogni traccia.
Di colpo, come un maleficio davanti a un parola magica. Purtroppo sembrava svanita nel nulla anche la persona con la quale aveva diviso una notte in cui il tempo sembrava essersi fermato. E che un’esplosione aveva iniziato a scandire di nuovo.
Si disse che era stupida a rimpiangere quello che in realtà non c’era mai stato. Chinò gli occhi sull’oggetto che teneva fra le mani, delle dimensioni di un vecchio telecomando da televisore.
«Ecco, deve essere una cosa come questa che usa.»
«Chi e a fare che?»
«Quello che fa scoppiare le bombe. Probabilmente è da un aggeggio simile che fa partire gli impulsi che innescano le esplosioni.»
Mentre stavano osservando quell’innocuo marchingegno di plastica e plexiglas, che in altri casi poteva diventare un’arma letale, il cicalino del ricevitore li sorprese e li fece quasi sobbalzare. Era il segnale che li chiamava a ritirare le ordinazioni.
Russell si alzò e le prese il ricevitore dalle mani.
«Vado io. Almeno questo lasciamelo fare.»
Vivien lo vide presentarsi allo sportello, restituire il ricevitore e avere in cambio un vassoio con il cibo. Tornò verso di lei e depose il piatto di plastica sulla panchina fra loro.
Scartocciarono gli hamburger e iniziarono a mangiare in silenzio. Il cibo era lo stesso, ma l’atmosfera era molto diversa da quando avevano mangiato insieme a Coney Island, soli davanti al mare. Quando Russell si era confidato e lei era sicura di averlo compreso.
Ora si rendeva conto di avere capito solo quello che desiderava capire.
Dipende dal lupo che nutrì di più…
La suoneria del cellulare la sorprese al centro di questi pensieri e la riportò a quando e a dove. Osservò il numero comparso sul display senza riuscire a riconoscerlo. Attivò la comunicazione.
«Detective Light.»
Le arrivò alle orecchie una voce conosciuta.
«Buongiorno, signorina Light. Sono il dottor Savine, uno dei medici che seguono sua sorella.»
Quella voce e quelle parole richiamarono immagini nella mente di Vivien. La clinica Mariposa a Cresskill, Greta con occhi senza immagini persi nel vuoto, i camici bianchi che volevano dire sicurezza e angoscia insieme.
«Mi dica, dottore.»
«Purtroppo non ho delle buone notizie per lei.»
Vivien attese in silenzio il seguito, stringendo istintivamente il pugno.
La sicurezza era svanita ed era rimasta solo l’angoscia.
«Le condizioni di sua sorella si sono improvvisamente aggravate. Non sappiamo di preciso che cosa aspettarci e di conseguenza non so di preciso che cosa dire a lei. Ma questo nuovo corso non promette niente di buono.
Sono stato sincero, come mi aveva chiesto fin dall’inizio.»
Vivien chinò la testa, lasciando che le lacrime le scorressero sulle guance.
«Certo dottore, la ringrazio. Io purtroppo non posso essere lì in questo momento.»
«Capisco. La terrò informata, signorina Light. Mi dispiace molto.»
«Lo so. Grazie ancora.»
Chiuse la comunicazione e si alzò di scatto dalla panchina, dando le spalle a Russell e asciugandosi gli occhi con il dorso della mano. Il suo primo impulso sarebbe stato quello di mollare tutto e tutti, prendere la macchina e correre da sua sorella, a dividere con lei i pochi frammenti di vita insieme che ancora restavano loro. Ma non lo poteva fare. Per la prima volta nella sua vita maledisse il suo lavoro, il dovere che la costringeva come una gabbia, il significato di quel distintivo. Maledisse quell’uomo che nel suo delirio la teneva lontana da quello che più amava e che le faceva sembrare quello che amava sempre più lontano.
«Andiamo.»
Russell aveva capito che una brutta notizia era arrivata a sconvolgerla.
Chiunque lo avrebbe capito. Trainato dalla sua voce brusca, si alzò dalla panchina, gettò il vassoio nel contenitore dei rifiuti e la seguì in silenzio fino alla macchina, senza chiedere nulla.
Vivien gliene fu grata.
Tornarono al Distretto con le stesse modalità dell’andata, il lampeggiante e la sirena che aprivano loro la strada in mezzo al traffico, un biglietto per un viaggio agevolato che a volte poteva costare molto caro.
Arrivarono alla meta senza scambiare una parola. Per tutto il tempo Vivien aveva guidato come se il destino del mondo dipendesse dalla velocità con cui rientrava alla base, le macchine che incrociavano e superavano nascoste a tratti dal viso di sua sorella.
Mentre si slacciava la cintura, Vivien si chiese se in quel preciso istante fosse ancora viva. Sollevò il viso e guardò Russell. Si accorse che per tutto il viaggio si era dimenticata della sua presenza.
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