Impugnò il volante, si staccò dal marciapiede e riprese il viaggio verso Coney Island. La successiva domanda di Russell la colse di sorpresa. Forse anche lui stava cercando di farsi un’opinione della sua compagna di viaggio.
«Di solito i detective hanno un partner. Perché tu non ce l’hai?»
«Adesso ho te. E la tua presenza mi conferma le ragioni per cui di solito lavoro da sola.»
Dopo quella risposta secca, nella macchina cadde il silenzio. Durante la conversazione Vivien aveva diretto la macchina verso Downtown e adesso stavano superando il ponte di Brooklyn. Quando si lasciarono alle spalle Manhattan, Vivien accese la radio e la sintonizzò su Radio Kiss 98.7, la stazione che trasmetteva musica nera. Guidò la Volvo per la Brooklyn-Queens Expressway fino a imboccare la Gowanus.
Russell guardava fuori dal finestrino, dalla sua parte. Quando arrivò un brano particolarmente ritmato iniziò, forse senza accorgersene, a battere il tempo con il piede. Vivien si rese conto che la responsabilità di quella situazione le era caduta addosso in un momento delicato. Il pensiero di Sundance e il comportamento strano di padre McKean avevano deviato la sua serenità di giudizio. O perlomeno le avevano fatto esprimere con durezza un giudizio non richiesto.
Mentre parcheggiava la macchina sulla Surf Avenue a Coney Island provò un lieve senso di colpa.
«Russell, scusami per quello che ho detto prima. Qualunque sia la tua motivazione, ci stai dando un grosso aiuto e di questo ti siamo grati. Per il resto non sta a me giudicare. Non è giusto che sia così, ma in questo momento ho dei problemi personali che influenzano il mio comportamento.»
Russell sembrò colpito da quella improvvisa apertura. Le sorrise.
«Non fa nulla. Nessuno come me può capire quanto i problemi personali possano avere influenza sulle scelte di vita.»
Scesero dalla macchina e raggiunsero a piedi l’indirizzo che Vivien aveva tirato giù dal file sugli Skullbusters. Al numero civico in suo possesso corrispondeva un grande punto vendita della Harley Davidson, con officina per le riparazioni e la personalizzazione delle moto. Quel posto dava l’aria di azienda, efficienza e pulizia. Era cento miglia lontano dalle esperienze che Vivien aveva sui covi dei biker, tipo quelli del Bronx o del Queens.
Entrarono. Alla loro sinistra una lunga fila di moto, di diversi modelli ma tutte rigorosamente Harley. A destra un’esposizione di capi d’abbigliamento e accessori, dai caschi alle tute alle marmitte. Di fronte un bancone, da dietro il quale uscì un tipo alto e robusto, con un paio di jeans e una maglietta nera senza maniche che venne verso di loro. Aveva una bandana nera, basette e baffi a manubrio che a Vivien ricordarono il fidanzato di Julia Roberts in Erin Brockovich. Mentre si avvicinava si rese conto che i baffi erano tinti, che la bandana probabilmente aveva il compito di coprire una calvizie e che il tipo, sotto l’abbronzatura, doveva da tempo aver passato i sessant’anni. Sulla spalla destra aveva tatuato un Jolly Roger con la stessa scritta trovata sul corpo murato quindici anni prima.
«Buongiorno. Mi chiamo Vivien Light.»
L’uomo sorrise, divertito.
«Quella del film?»
«No, quella della Polizia.»
Mentre dava quella risposta secca Vivien aveva estratto il distintivo.
L’assonanza del suo nome con quello di Vivien Leigh, la protagonista di Via col vento , l’aveva tormentata per tutta la vita.
L’atteggiamento sereno dell’uomo non cambiò.
Pelle dura o coscienza tranquilla, pensò Vivien.
«Io sono Justin Chowsky, il titolare. C’è qualcosa che non va?»
«A quanto mi risulta questa era la sede di un gruppo di biker chiamato Skullbusters.»
«E lo è ancora.»
Chowsky sorrise all’aria sorpresa di Vivien.
«Le cose sono un po’ cambiate dall’inizio. Una volta in questo posto c’era un gruppo di ragazzi scapestrati, alcuni dei quali avevano dei problemi con la legge. Anche io, se devo dirla tutta. Roba da niente, può controllare. Qualche spinello, qualche rissa, qualche sbronza di troppo.»
L’uomo con i suoi ostinati baffi spioventi guardò per un attimo una vetrina come se proiettate sopra ci fossero scene della sua giovinezza.
«Eravamo delle teste calde ma nessuno di noi era un delinquente vero. I soggetti veramente brutti si sono allontanati di loro spontanea volontà.»
Fece un gesto circolare con la mano, che comprendeva nello stesso tempo l’ambiente intorno a loro e un senso di visibile orgoglio.
«Poi un giorno ho deciso di aprire la baracca che vedete qui intorno.
Poco per volta siamo diventati uno dei più importanti centri di vendita e di personalizzazione dello Stato. E gli Skullbusters sono diventati un sereno gruppo di vecchietti nostalgici che si ostinano ad andare in giro con delle moto come se fossero ancora dei ragazzi.»
Vivien guardò Russell, che fino a quel momento si era tenuto a un paio di passi di distanza senza avvicinarsi e senza presentarsi. Si compiacque per il suo comportamento. Era uno che sapeva stare al posto suo.
Tornò a rivolgere le sue attenzioni all’uomo di fronte a lei.
«Signor Chowsky, ho bisogno di un’informazione.»
Prese il silenzio dell’uomo come un assenso.
«Una quindicina di anni fa, più o meno, le risulta che un membro del gruppo sia scomparso nel nulla senza lasciare traccia di sé?»
La risposta arrivò senza esitazione e Vivien sentì il suo cuore allargarsi alla speranza.
«Mitch Sparrow.»
«Mitch Sparrow?»
Vivien ripeté il nome, come per paura che svanisse dalle loro memorie.
«Lui. E per la precisione è successo…»
Chowsky si tolse la bandana, smentendo le supposizioni di Vivien e rivelando una chioma folta nonostante l’età. Si passò una mano fra i capelli, anche questi rigorosamente tinti, come se quel gesto lo aiutasse a ricordare.
«È successo esattamente diciotto anni fa.»
Vivien notò che la data era compatibile con la tolleranza che il medico legale aveva espresso nel referto dell’autopsia.
«Ne è sicuro?»
«Assolutamente. Pochi giorni dopo è nato il mio ultimo figlio.»
Vivien estrasse dalla tasca interna del giubbotto una delle due foto che aveva portato con sé, quella in primo piano. La tese verso Chowsky.
«È questo Mitch Sparrow?»
L’uomo non ebbe nemmeno bisogno di prenderla in mano per guardarla meglio.
«No. Mitch era biondo e questo è bruno. E poi era allergico ai gatti.»
«Non ha mai visto questa persona?»
«Mai in tutta la mia vita.»
Vivien rimase un attimo a pensare alle implicazioni di quella affermazione. Poi tornò a quella parte del suo lavoro che le richiedeva di porre delle domande.
«Che tipo era Mitch?»
Chowsky sorrise.
«All’inizio, quando si è unito a noi, era un biker sfegatato. Curava la sua moto più di sua madre. Era un bel ragazzo ma le donne le trattava come fazzoletti usa e getta.»
L’uomo sembrava uno di quelli che provavano piacere nel sentirsi parlare. Vivien lo incalzò.
«E poi?»
Chowsky fece un gesto con le spalle che descriveva i casi ovvi della vita.
«Un giorno ha incontrato una ragazza diversa dalle altre e ci è cascato pure lui. Ha usato sempre meno la moto e sempre più il letto. Finché la ragazza ci è rimasta. Incinta, voglio dire. Allora lui ha trovato un lavoro e si sono sposati. Siamo andati tutti al suo matrimonio. E siamo rimasti ubriachi due giorni.»
Vivien non aveva tempo per i ricordi delle bisbocce di un vecchio motociclista. Cercò di arrivare al sodo.
«Mi parli della sua scomparsa. Com’è andata?»
«C’è poco da dire. Un bel giorno è sparito. Di punto in bianco. La moglie ha avvertito la Polizia. Sono stati anche da me a fare domande.
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