Giorgio Faletti - Io sono Dio

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Non c’è morbosità apparente dietro le azioni del serial killer che tiene in scacco la città di New York. Non sceglie le vittime seguendo complicati percorsi mentali. Non le guarda negli occhi a una a una mentre muoiono, anche perché non avrebbe abbastanza occhi per farlo. Una giovane detective che nasconde i propri drammi personali dietro a una solida immagine e un fotoreporter con un passato discutibile da farsi perdonare sono l’unica speranza di poter fermare uno psicopatico che nemmeno rivendica le proprie azioni. Un uomo che sta compiendo una vendetta terribile per un dolore che affonda le radici in una delle più grandi tragedie americane. Un uomo che dice di essere dio.

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«Volevo essere come lui. Volevo dimostrare a mio padre e mia madre e a tutti i loro amici che anche io valevo qualcosa. Così quando lui partì per il Kosovo, gli chiesi di portare anche me in Europa.»

Dopo aver guardato altrove per tutto quel tempo, Russell si girò verso di lei, con una diversa confidenza.

«Ricordi la storia della guerra nei Balcani?»

Vivien non ne sapeva molto. Per un attimo fu imbarazzata dalla propria ignoranza.

«Più o meno.»

«Sul finire degli anni Novanta, il Kosovo era una provincia confederata dell’ex Jugoslavia, a maggioranza albanese e di religione musulmana, governata con pugno di ferro da una minoranza serba che teneva a bada aspirazioni separatiste e di annessione all’Albania.»

Vivien era affascinata dalla voce di Russell, dalla sua capacità di raccontare le cose, di condividerle con chi aveva di fronte fino a portarlo a farne parte. Pensò che quello, forse, era il suo vero talento. Era certa che davvero, quando tutto fosse finito, avrebbe avuto modo di raccontare una grande storia.

La sua grande storia.

«Tutto era cominciato molto tempo prima. Secoli prima. A nord di Pristina, la capitale, c’è un posto che si chiama Kosovo Polje. Il nome significa “La piana dei merli”. Alla fine del Trecento è stata combattuta una battaglia dove un esercito cristiano composto da una coalizione serbo-bosniaca guidata da un certo Lazar Hrebeljanovic è stato distrutto dall’esercito dell’Impero Ottomano. Soprattutto i serbi ebbero delle perdite enormi. Dopo la disfatta è stato eretto in quel posto un monumento unico al mondo, credo. Si tratta di una stele che rappresenta un perenne anatema contro i nemici del popolo serbo, che augura loro la perdita cruenta e crudele di ogni bene possibile, in questo e nell’altro mondo. Io ci sono stato. Davanti a quel monumento ho capito una cosa.»

Fece una breve pausa, come per cercare le parole giuste per esprimere in modo sintetico il suo pensiero.

«Le guerre finiscono. L’odio dura per sempre.»

Vivien si chiese se avesse di nuovo anche lui nella mente le parole della lettera e il concetto che esprimevano.

Per tutta la mia vita, prima e dopo la guerra, ho lavorato nell’edilizia…

«Robert mi spiegò che Milosevic, nel 1987, aveva giurato che nessuno avrebbe mai più alzato una mano su un serbo. Quella dichiarazione di intenti lo aveva in un attimo trasformato nell’uomo forte della situazione ed era diventato presidente. Nel 1989, esattamente seicento anni dopo la battaglia di Kosovo Polje, accanto a quella stele, fece un discorso battagliero davanti a oltre cinquecentomila serbi. Quel giorno tutti gli albanesi rimasero chiusi in casa.»

Russell fece un movimento con le mani, come per racchiudere il tempo in quel gesto.

«Noi siamo arrivati all’inizio del 1999, quando le repressioni e i combattimenti con i ribelli dell’UCK, l’Esercito di Liberazione del Kosovo, stavano convincendo la comunità internazionale a intervenire. Ho visto cose che non dimenticherò più. Cose che per abitudine e attitudine Robert attraversava come se fosse impermeabile.»

Vivien si chiese se Russell si sarebbe mai liberato del fantasma di Robert Wade.

«Una notte, poco prima che i bombardamenti della NATO cominciassero, tutti i giornalisti e i fotografi furono espulsi. I motivi non erano dichiarati ma il sospetto comune è che si intendesse mettere in atto una pesante pulizia etnica. Il prefetto di Pristina aveva detto, in modo succinto ma chiaro, che chi se ne andava aveva un augurio di buon viaggio mentre a chi restava non veniva garantito nulla. Alcuni non lo fecero. E noi fra questi.»

Vivien azzardò una domanda.

«Sei sicuro che Robert fosse davvero un uomo coraggioso?»

«Un tempo lo credevo. Adesso non ne sono più così sicuro.»

Russell tornò al racconto con una voce che era sollievo e fatica insieme.

«Robert aveva un amico, Tahir Bajraktari, se ricordo bene, un maestro di scuola che abitava alla periferia di Pristina con la moglie Lindita. Robert gli diede del denaro e lui prima di andarsene dalla città ci nascose in casa sua, in una stanza interrata a cui si accedeva attraverso una botola nascosta da un tappeto, sul retro dell’edificio. Ci arrivava da fuori l’eco dei combattimenti. Quelli dell’UCK attaccavano, colpivano e poi sparivano nel nulla.»

Vivien ebbe l’impressione che se lo avesse guardato a fondo negli occhi avrebbe visto le immagini che stava rivedendo in quel momento.

«Io ero terrorizzato. Robert faceva di tutto per tranquillizzarmi. Rimase per un poco con me ma il richiamo di quello che stava succedendo all’esterno è stato più forte di lui. Un paio di giorni dopo uscì dal nostro nascondiglio con le tasche piene di rullini, mentre fuori risuonavano per le strade le raffiche di mitra. Non l’ho più visto vivo.»

Russell prese la bottiglia e bevve un lungo sorso d’acqua.

«Siccome non tornava sono uscito a cercarlo, ancora adesso non so con che coraggio. Ho camminato per le strade deserte. Pristina era una città fantasma. La gente era scappata, lasciando in certi casi la porta aperta e la luce accesa. Sono sceso in direzione del centro e a un certo punto l’ho trovato. Robert era steso a terra, su un marciapiede, in una piazzetta con degli alberi, dove c’erano altri cadaveri. Aveva il petto distrutto da una raffica di mitra, la macchina fotografica ancora stretta in mano. Ho preso la macchina e sono tornato di corsa a nascondermi. Ho pianto per Robert e ho pianto per me, finché non ho più avuto la forza per fare nemmeno quello. Poi sono iniziati i bombardamenti della NATO. Sono rimasto nascosto lì non so per quanto tempo, ascoltando le bombe cadere, senza lavarmi, razionando il cibo che avevo a disposizione, finché mi sono reso conto che le voci che arrivavano da fuori parlavano inglese. Allora ho capito di essere in salvo e sono uscito.»

Tornò a bere con avidità, come se il ricordo delle lacrime di allora avesse prosciugato ogni traccia di liquido nel suo corpo.

«Quando sono riuscito a sviluppare le foto della macchina di Robert, quando ho avuto modo di vederle, sono stato elettrizzato da uno scatto in particolare. Ho capito subito che era una foto straordinaria, una di quelle che un fotografo insegue per tutta la vita.»

Vivien aveva ben chiara quell’immagine. Tutto il mondo la conosceva.

Era diventata una delle foto più famose del pianeta.

Rappresentava un uomo che veniva colpito da un proiettile al cuore.

Indossava un paio di calzoni scuri ed era con il torso e i piedi nudi.

L’impatto del colpo aveva allargato uno spruzzo di sangue e lo aveva sollevato da terra. Per una di quelle casualità che fanno la fortuna di un reporter di guerra, era stato colto dall’obiettivo con le braccia allargate e i piedi sovrapposti, il corpo sospeso in una posizione che ricordava la figura di Gesù sulla croce. Anche il viso dell’uomo, scarno, con i capelli lunghi e un accenno di barba, collimava con quella che era l’iconografia tradizionale del Cristo. Il titolo della foto, La seconda Passione, era venuto fuori quasi di conseguenza.

«Mi sono fatto prendere da qualcosa che non so spiegare. Invidia, rabbia per quella capacità di cogliere l’attimo, ambizione. Avidità, forse. L’ho presentata al “New York Times” dicendo che l’avevo scattata io. Il resto lo sai. Ci ho vinto un Premio Pulitzer, con quella foto. Purtroppo il fratello dell’uomo ucciso aveva visto Robert mentre la scattava e ha rivelato la verità ai giornali. Così tutti hanno saputo che la foto non era mia.»

Fece una pausa prima di arrivare a una conclusione che gli era costata anni di vita.

«E se devo essere onesto, non sono del tutto certo che mi sia dispiaciuto.»

Vivien aveva appoggiato d’istinto una mano sul braccio di Russell.

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