Nick era un ragazzo dolce e adorabile e Allison una ragazzina dalla personalità molto spiccata. Poi un giorno Nick le aveva confessato di essere omosessuale. Carmen lo aveva già capito ma aspettava che fosse lui ad affrontare l’argomento. Dal suo punto di vista non cambiava nulla. Nick era e restava suo figlio. Si riteneva una donna abbastanza intelligente e una madre troppo affettuosa per consentire a una diversità sessuale di compromettere la stima che aveva di lui come persona. Avevano parlato un pomeriggio intero delle umiliazioni che aveva patito e dei turbamenti che aveva attraversato prima di accettarsi, in una comunità di ragazzi che avevano fatto del machismo la loro regola di vita. Poi lui le aveva annunciato che con il suo compagno sarebbero andati a vivere nel West Village.
Carmen si alzò e andò in cucina a prendere un pezzo di carta dal rotolo appoggiato sul piano. Si asciugò gli occhi. Adesso che ci pensava, la frase completa del ragazzo del film era che non è facile vivere a New York se sei messicano, povero e gay.
Aprì il frigo e si versò un bicchiere di succo di mela.
Basta piangere, si disse.
Lacrime ne aveva versate a sufficienza, nella sua vita. Se anche la vita di Nick all’inizio non era stata facile, adesso era commesso in una boutique di Soho, era innamorato e felice. Anche lei aveva un buon lavoro, non aveva eccessivi problemi di denaro e portava avanti da anni una relazione discreta e senza coinvolgimenti con il suo capo, il dottor Bronson. Poteva essere considerata una vita accettabile. Certo, Allison da bambina vivace si era trasformata in una adolescente difficile. Ogni tanto, senza preavviso, stava fuori tutta la notte. Carmen sapeva che stava col suo ragazzo quando lui aveva la casa libera. Tuttavia avrebbe preferito essere avvertita quando succedeva. Era certa che, dopo aver attraversato tutti gli inevitabili conflitti generazionali, il loro rapporto col tempo sarebbe migliorato. Carmen negli anni aveva imparato a conoscere e a capire le persone ma, come tutti, mai completamente se stessa e quelli con cui era coinvolta affettivamente. A volte aveva il sospetto che tutte le sue certezze a proposito di Allison fossero fumo che si gettava negli occhi da sola e niente altro.
Stava per tornare alla sua poltrona e ai numeri del suo quiz matematico quando sentì suonare alla porta. Si chiese chi potesse essere. Le poche amiche che aveva raramente le facevano visita senza un preavviso telefonico. E inoltre a quell’ora del giorno lavoravano tutte. Lasciò la cucina e percorse il corridoio fino alla porta d’ingresso.
Nel riquadro di vetro, confuse oltre la tenda, c’erano le sagome di due persone.
Quando aprì l’uscio si trovò davanti una ragazza dall’aria energica, volitiva, una di quelle che sono sempre troppo occupate per ricordarsi di essere anche belle. L’altro era un uomo sui trentacinque anni, alto, con i capelli scuri e occhi neri e intensi. Aveva una barba di un paio di giorni che gli dava un senso randagio e accattivante. Carmen pensò che se lei fosse stata ancora giovane, la ragazza sarebbe stata così attraente da poter essere considerata una rivale e lui così eccitante da poter essere considerato una preda. Ma quelli erano solo i fuochi fatui della memoria, un gioco all’identificazione senza alcun seguito che faceva con se stessa tutte le volte che incontrava delle persone nuove, giovani o vecchie che fossero.
Alla sua età non aveva più voglia di mettersi in gioco, perché la vita le aveva insegnato come, nella maggioranza dei casi, andava a finire. Tutto sommato, ancora una volta, si trattava di una serie di numeri.
«La signora Carmen Montesa?»
«Sì.»
La ragazza le mostrò un distintivo lucido di plastica e metallo.
«Mi chiamo Vivien Light e sono un detective del 13° Distretto, a Manhattan.»
Le lasciò il tempo di controllare la sua foto sul tesserino. Poi indicò l’uomo al suo fianco.
«Lui è Russell Wade, il mio partner.»
Carmen sentì un guizzo di ansia attraversarle il cuore. Ebbe un paio di extrasistole, come sempre le succedeva quando si emozionava.
«Che succede. Si tratta di Allison? È successo qualcosa a mia figlia?»
«No signora, stia tranquilla. Ho solo bisogno di scambiare due parole con lei.»
Il sollievo arrivò come un balsamo a placarla. Era troppo eccitabile. Ma contro la sua natura non poteva fare nulla. Sul lavoro era di una freddezza e un’efficienza ammirevoli, ma come rientrava nel suo ruolo di donna e di madre ritornava a essere vulnerabile.
Si rilassò.
«Mi dica pure.»
La ragazza le indicò con un sorriso l’interno della casa.
«Temo che non sia una cosa così veloce. Possiamo entrare qualche istante?»
Carmen si fece di lato, un’espressione dispiaciuta sul viso.
«Scusate. Il sollievo mi ha fatto dimenticare le buone maniere. Certo che potete entrare.»
Si spostò dalla soglia e tenne la porta aperta per consentire l’ingresso.
Quando le passò vicino, Carmen pensò che l’uomo aveva un buon profumo. Subito dopo si corresse. Aveva un buon odore. La ragazza invece sapeva di vaniglia e di cuoio. Mentre chiudeva la porta si chiese che cosa avrebbero pensato di lei, se avessero potuto sentire quello che le era passato per la mente.
Li superò e li guidò verso il salotto. Sentì la voce della ragazza arrivare cortese da dietro le spalle.
«Spero di non averla disturbata.»
Carmen si stupì che un membro della Polizia si scusasse. Di solito erano piuttosto ruvidi. Specie quando erano dei gringos come loro e si rivolgevano a un ispanico. In quel momento ebbe la certezza che non erano entrati nella sua casa a portare delle belle notizie.
Uscirono dal corridoio e furono nel soggiorno. Carmen si girò a guardare la ragazza perché vedesse che non erano parole di circostanza.
«Nessun disturbo. Oggi è il mio giorno libero. Mi stavo godendo un pomeriggio di ozio.»
«Lei che lavoro fa?»
Mentre stava per rispondere, si chiese perché un mezzo sorriso fosse corso rapido sul viso dell’uomo, quando aveva sentito la ragazza formulare quella domanda.
«Sono infermiera. Prima ero al Bellevue, a Manhattan. Ho lavorato lì per molto tempo. Adesso sono l’assistente in sala operatoria del dottor Bronson, un chirurgo plastico.»
Indicò il divano alle spalle dei due.
«Accomodatevi, vi prego. Volete qualcosa? Un caffè?»
Si sedette nella poltrona solo dopo che i due si furono accomodati sul divano.
«No grazie, signora. Stiamo bene così.»
La ragazza le sorrise. Carmen ebbe l’impressione di trovarsi di fronte a una persona che, quando voleva, sapeva mettere gli altri a proprio agio.
Forse perché di solito lo era anche lei. Lui pareva un poco più sulle spine.
Non sembrava un poliziotto. Non aveva quell’aria sbrigativa che di solito i rappresentanti della legge portavano in giro come emblema del loro potere.
Vide che Vivien si guardava in giro. Aveva fatto correre lo sguardo attento sulle pareti, sulla tappezzeria, sul bancone della cucina che si intravedeva dalla porta alla loro destra, sulla saletta da pranzo dall’altra parte del corridoio. Un giro d’occhi rapido, ma acuto. Carmen fu certa che si era impressa nella mente ogni particolare.
«È molto bello qui.»
Carmen le sorrise.
«Lei è molto gentile e molto diplomatica. È la casa di una donna che vive del suo stipendio. Quelle molto belle sono diverse. Ma io sto bene così.»
Non aggiunse altro. Puntò gli occhi in quelli della ragazza e attese. Lei capì che i convenevoli erano finiti e doveva arrivare al motivo della sua visita.
«Signora, lei diciotto anni fa ha denunciato la scomparsa di suo marito, Mitch Sparrow.»
Non era una domanda, era un’affermazione.
Carmen si trovò spiazzata. Prima di tutto per la coincidenza di aver pensato a Mitch pochi minuti prima. In secondo luogo perché non immaginava che dopo tanto tempo quella storia interessasse ancora qualcuno, a parte lei.
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