«Okay, Vivien. Che succede adesso?»
«Dammi il tuo cellulare.»
Russell aveva tirato fuori dalla tasca il suo telefono. Vivien si era stupita che non fosse un iPhone. A New York tutti i VIP l’avevano. Forse Wade non si considerava tale o forse l’aveva gettato come fiche su qualche tavolo da gioco.
La detective aveva preso l’apparecchio e composto il proprio numero telefonico. Quando lo aveva sentito squillare, in basso sulla sua scrivania, aveva riattaccato e lo aveva restituito al suo proprietario.
«Ecco. Questo in memoria è il mio numero di telefono. Fuori, uscendo dall’edificio, a sinistra, c’è una Volvo metallizzata. È la mia macchina. Vai lì e aspetta che io ti raggiunga.»
Aveva caricato di sarcasmo la frase successiva.
«Ho delle cose da fare e non so quanto ci vorrà. Mi dispiace, ma dovrai avere pazienza.»
Russell l’aveva guardata. Nei suoi occhi era passato un velo di quella tristezza che Vivien ci aveva scoperto con sorpresa pochi giorni prima.
«Ho aspettato più di dieci anni. Posso aspettare ancora un poco.»
Aveva girato le spalle e se ne era andato. In piedi sull’orlo delle scale, Vivien era rimasta qualche secondo perplessa a vederlo scendere e sparire al piano di sotto. Poi aveva sceso a sua volta la rampa ed era tornata alla sua scrivania. Accanto all’eccitazione per l’importanza del compito che il caso le aveva messo in mano, era rimasta l’angoscia trasmessa dalle parole che aveva letto su quella lettera. Parole farneticanti trasportate dal vento come semi velenosi, che avevano trovato chissà dove il terreno adatto per germogliare. Vivien si chiese che genere di sofferenze potesse aver patito l’uomo che aveva lasciato quel messaggio e quale male potesse affliggere l’uomo che l’aveva ricevuto, se aveva deciso di accettarne l’eredità e mettere in atto la sua folle vendetta postuma.
I confini della follia si sono allargati…
Forse in quel caso era più giusto dire che i confini erano stati cancellati del tutto.
Si era seduta alla scrivania e si era collegata al Database della Polizia.
Nella stringa di ricerca aveva lanciato le parole The only flag e atteso il risultato. Sullo schermo le era apparsa quasi subito la foto di una spalla nuda sulla quale era tracciato un tatuaggio uguale a quello trovato sul cadavere. Era l’elemento distintivo di un gruppo di biker con sede a Coney Island che si facevano chiamare Skullbusters. Allegate al dossier c’erano alcune foto segnaletiche degli elementi della banda che avevano avuto dei guai con la legge. Accanto al nome di ognuno erano elencate le piccole o grandi nefandezze del galantuomo in questione. Le foto sembravano piuttosto vecchie e Vivien si era chiesta se uno di loro non fosse la stessa persona che aveva riposato per anni sepolta nelle fondamenta di un palazzo sulla 23sima Strada. Sarebbe stato il massimo dell’ironia ma non se ne sarebbe stupita più di tanto. Come aveva sottolineato poco prima il capitano, tutto il loro lavoro era fatto di coincidenze. Le foto dello stesso ragazzo e dello stesso gatto trovate in due posti così distanti nel tempo e nello spazio ne erano la prova tangibile.
Mentre stava prendendo nota dell’indirizzo della sede dei motociclisti, era arrivato per via telematica dal 67° Distretto di Brooklyn il dossier della morte di Ziggy Stardust. Bellew non aveva perso tempo. Sul suo computer adesso Vivien aveva tutto il materiale: il referto sommario del coroner, il rapporto redatto dal detective incaricato del caso e le foto scattate sulla scena del delitto. Ne aveva ingrandita ai limiti del possibile una scattata nella prospettiva che la interessava. Si vedeva chiaramente, su un tasto della stampante appoggiata al tavolo, una traccia rossa, come se qualcuno avesse premuto il pulsante con un dito macchiato di sangue.
Un altro elemento che deponeva a favore della storia riferita da Russell Wade.
Le altre foto mostravano il cadavere di un uomo di corporatura esile che giaceva a terra coperto di sangue. Vivien era rimasta a lungo a guardarle e non era riuscita a provare il minimo accenno di pietà, mentre pensava che il bastardo aveva avuto quello che meritava. Per quello che aveva fatto a sua nipote e a chissà quanti altri ragazzi. Subito dopo aver formulato quel pensiero da giustizia sommaria, era stata costretta per l’ennesima volta a constatare quanto il coinvolgimento personale cambiasse la prospettiva delle cose.
Vivien prese dalla tasca il telecomando e fece scattare l’apertura automatica delle porte. Russell Wade si avvicinò e salì dalla parte del passeggero. Vivien entrò in macchina e se lo trovò seduto di fianco, intento ad allacciarsi la cintura di sicurezza. Mentre lo osservava, si sorprese a pensare che era un bell’uomo. Si diede subito della stupida e questo fatto aggiunse disappunto a disappunto.
L’uomo la guardò con aria d’attesa.
«Dove andiamo?»
«Coney Island.»
«A fare che?»
«A vedere delle persone.»
«Che persone?»
«Aspetta e vedrai.»
Mentre la macchina entrava nel traffico, Russell si appoggiò allo schienale e fissò la strada davanti a lui.
«Oggi sei in un particolare stato di grazia oppure sei sempre così comunicativa?»
«Solo con gli ospiti importanti.»
Russell Wade si girò verso di lei.
«Io non ti piaccio, vero?»
Quelle parole erano sembrate più l’enunciazione di un dato di fatto che una domanda vera e propria. Vivien fu contenta di quell’approccio così diretto. A uso e consumo dei loro rapporti presenti e futuri, espose senza peli sulla lingua il proprio parere.
«In condizioni normali, mi saresti del tutto indifferente. Ognuno della sua vita può fare quello che meglio crede. Anche gettarla via, se non fa del male a nessuno. C’è in giro un sacco di gente che ha bisogno di aiuto per grane che le sono arrivate addosso senza nessuna colpa. Chi è adulto e senziente e le grane se le va a cercare, per quanto mi riguarda, ha via libera. Questo non è qualunquismo, è solo buonsenso.»
Russell Wade fece un gesto eloquente con il capo.
«Okay. Almeno abbiamo una tua presa di posizione ufficiale nei miei confronti.»
Vivien fece uno scarto con la macchina e accostò al marciapiede, provocando la reazione degli autisti che la seguivano. Lasciò il volante e si girò verso l’uomo che le stava seduto di fianco.
«Mettiamo bene le cose in chiaro. Puoi avere incantato il capitano con quella storia della tua redenzione, ma io sono più difficile da addomesticare.»
Russell rimase a guardarla in silenzio. Quello sguardo scuro e all’apparenza indifeso la portò a sentirsi presa in giro e a mettere nelle sue parole una durezza che non le apparteneva.
«Le persone non cambiano, signor Russell Wade. Ognuno è quello che è e appartiene a un posto preciso. Per quanti giri faccia, prima o poi ci ritorna. E non credo che tu sia un’eccezione a questa regola.»
«Che cosa te lo fa credere?»
«Sei venuto qui con in tasca una fotocopia del foglio che ti ha consegnato Ziggy. Questo significa che l’originale, quello macchiato del suo sangue, ce l’hai ancora tu. E ti sarebbe servita come prova con l’FBI o l’NSA o chi diavolo vuoi nel caso noi non ti avessimo creduto e ti avessimo risposto picche.»
Vivien si era accalorata e aveva rincarato la dose.
«Se per un qualsiasi motivo ti avessimo chiesto di svuotare le tasche avremmo trovato solo la fotocopia di un foglio che potevi benissimo spacciare per una tua fantasia o un tuo appunto per una storia. Tanto tu nello spacciare una cosa per un’altra mi pare abbia una certa predisposizione.»
Le sue parole non parevano aver scalfito l’imperturbabilità del suo ospite. Questo era segno di autocontrollo o abitudine. Nonostante la sua furia, Vivien era più propensa per la seconda delle due ipotesi.
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