Giorgio Faletti - Io sono Dio

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Non c’è morbosità apparente dietro le azioni del serial killer che tiene in scacco la città di New York. Non sceglie le vittime seguendo complicati percorsi mentali. Non le guarda negli occhi a una a una mentre muoiono, anche perché non avrebbe abbastanza occhi per farlo. Una giovane detective che nasconde i propri drammi personali dietro a una solida immagine e un fotoreporter con un passato discutibile da farsi perdonare sono l’unica speranza di poter fermare uno psicopatico che nemmeno rivendica le proprie azioni. Un uomo che sta compiendo una vendetta terribile per un dolore che affonda le radici in una delle più grandi tragedie americane. Un uomo che dice di essere dio.

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«Ho bisogno di parlare quanto prima con Sua Eminenza. Di persona. Mi creda, si tratta di una questione di vita o di morte.»

Doveva aver trasmesso in maniera molto efficace la propria angoscia al suo interlocutore, perché nel tono della risposta c’era sincero rammarico, oltre a un accenno di preoccupazione.

«Purtroppo il cardinale è partito stamattina per un breve soggiorno a Roma. Sarà nella Santa Sede a colloquio con il Pontefice. Non sarà di ritorno prima di domenica.»

Michael McKean si sentì di colpo perduto. Una settimana. Aveva sperato di poter condividere il peso della sua pena con l’arcivescovo, avere un consiglio, una direttiva. Il miracolo di una dispensa non poteva essere nemmeno lontanamente ipotizzato, ma il conforto del parere di un superiore in quel momento gli era indispensabile.

«Posso fare qualcosa io, reverendo?»

«No, purtroppo. L’unica cosa che le chiedo è di farmi avere un appuntamento con Sua Eminenza il più presto possibile.»

«Per quello che è nelle mie possibilità, le garantisco che sarà fatto. Sarà mia cura avvertirla personalmente presso la sua parrocchia.»

«La ringrazio.»

Padre McKean chiuse la comunicazione e si sedette sul bordo del letto, sentendo il materasso cedere sotto il peso del suo corpo. Per la prima volta da che aveva deciso di prendere i voti, si sentì veramente solo. E come qualcuno che aveva insegnato al mondo l’amore e il perdono, per la prima volta gli venne da chiedere a Dio, l’unico e il vero, perché lo aveva abbandonato.

CAPITOLO 20

Vivien uscì dal Distretto e si diresse verso la macchina. La temperatura era rinfrescata. Il sole che al mattino sembrava intoccabile, adesso stava combattendo con un vento arrivato da ovest senza preavviso. Nuvole e ombre si contendevano il cielo e la terra. Sembrava il destino annunciato di quella città: correre e rincorrere senza mai riuscire in realtà ad afferrare nulla.

Trovò Russell Wade nel posto esatto in cui gli aveva dato appuntamento.

Vivien non era ancora riuscita a farsi un’idea di quell’uomo. Tutte le volte che ci provava, arrivava uno scarto imprevisto, qualcosa di inatteso e di improbabile a falsare il quadro che si stava costruendo nella testa.

E questo la indisponeva.

Mentre si avvicinava a lui, ripercorse nella mente tutta quella storia pazzesca.

Quando alla fine dell’incontro con il capitano si erano tutti resi conto che non c’era più nulla da dire ma molto da fare, Vivien si era rivolta a Wade.

«Mi può aspettare un attimo fuori, per favore?»

Lo sfortunato vincitore di un immeritato Premio Pulitzer si era alzato e si era diretto verso la porta.

«Senza problemi. Arrivederci capitano e grazie.»

Nella risposta di Bellew c’era stata una formale cortesia non sostenuta dal tono con cui venivano pronunciate le parole.

«Non c’è di che. Se questa cosa avrà il seguito che tutti ci auguriamo, ci sarà molta gente che dovrà dire grazie a lei.»

E anche il direttore di qualche giornale…

aveva pensato Vivien.

L’uomo era uscito chiudendo con delicatezza la porta alle sue spalle e lei era rimasta da sola col suo superiore. Il suo primo istinto sarebbe stato quello di chiedergli se era impazzito a promettere quello che aveva promesso a un tipo come Russell Wade. Il suo rapporto con il capitano però prevedeva da sempre il rispetto l’uno per le ragioni dell’altro e questa volta non poteva essere diverso. Inoltre era il suo capo e non voleva metterlo nell’imbarazzo di doverglielo ricordare.

«Che ne dici, Alan? Di questa storia delle bombe intendo.»

«Che mi sembra una follia. Che non mi sembra possibile. Ma dopo i fatti dell’11 Settembre ho scoperto che i confini della follia e del possibile si sono parecchio allargati.»

Vivien aveva confermato il suo accordo con quelle considerazioni affrontando un altro argomento. Quello che la preoccupava di più.

L’anello debole della catena.

«E di Wade che ne pensi?»

Il capitano aveva fatto un gesto con le spalle. Che voleva dire tutto e niente.

«Per il momento ci ha fornito l’unica traccia che abbiamo. E siamo fortunati ad averne una, da qualunque parte arrivi. In condizioni normali quel bellimbusto lo avrei cacciato a calci nel culo. Ma queste non sono condizioni normali. Sono morte quasi cento persone. Là fuori c’è altra gente ignara che in questo momento corre il rischio di fare la stessa fine.

Come ho detto durante il briefing, abbiamo il dovere di non trascurare nessuna possibilità. Inoltre quella storia delle foto è curiosa. Fa diventare un caso di routine un’ipotesi di importanza vitale. E mi sa di autentico.

Solo la realtà riesce a essere così fantasiosa da creare certe coincidenze.»

Vivien aveva ragionato spesso su questo concetto. E le sue esperienze di lavoro parevano avvalorarlo ogni giorno di più.

«Ce le teniamo per noi queste informazioni?»

Bellew si era grattato un orecchio, come faceva spesso quando rifletteva.

«Per il momento sì. Non voglio correre il rischio di diffondere il panico o di farmi ridere dietro da tutte le autorità dello Stato e da tutte le polizie del Paese. Esiste sempre, anche se non lo credo, la remota possibilità che tutto si sgonfi come una bolla di sapone.»

«Ti fidi di Wade in questo senso? È chiaro come il sole che sta cercando una storia grossa.»

«Infatti ce l’ha. E proprio per questo motivo non parlerà. Perché non gli conviene. Non lo faremo neanche noi, per lo stesso motivo.»

Vivien aveva chiesto una conferma di quello che già sapeva.

«Per cui d’ora in poi me lo dovrò portare dietro?»

Il capitano allargò le braccia come per accogliere l’inevitabile.

«Gli ho dato la mia parola d’onore. E io di solito mantengo la mia parola.»

Stavolta era stato il capitano a cambiare discorso, sigillando senza possibilità di correzione una lettera scritta a modo suo.

«Telefonerò immediatamente al 67° per farti mandare il file dell’indagine su questo Ziggy. Se lo riterrai necessario potrai anche fare un sopralluogo nel suo appartamento. Per quanto riguarda il tipo nel muro, che di colpo è diventato protagonista, hai qualche idea?»

«Sì. Ho una traccia. Non granché ma è in ogni caso un punto di partenza.»

«Molto bene. Al lavoro. E qualsiasi cosa tu abbia bisogno, non hai che da farmelo sapere. Posso farti avere tutto quello che ti serve senza dovermi sbottonare troppo, per il momento.»

Vivien non aveva fatto fatica a credergli. Sapeva che il capitano Alan Bellew vantava una vecchia amicizia con il capo della Polizia, che al contrario di Elisabeth Brokens moglie di Charles Brokens eccetera eccetera, non era solo millantata.

«Okay. Vado.»

Vivien si era girata per lasciare l’ufficio. Quando era sulla porta e stava per uscire Bellew l’aveva richiamata.

«Vivien, un’ultima cosa.»

E aveva guardata negli occhi e le aveva sorriso sornione.

«Per quanto riguarda Russell Wade, in caso di necessità, ricorda questo dettaglio. Io gli ho dato la mia parola d’onore.»

Una pausa prima di sottolineare il concetto finale.

«Tu no.»

Vivien era uscita con lo stesso sorriso sulle labbra. Fuori aveva trovato Russell Wade, in piedi con le mani in tasca, nella saletta dove aveva aspettato poco prima.

«Eccomi.»

«Mi dica, detective.»

«Se dovremo passare un poco di tempo insieme, puoi chiamarmi Vivien.»

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